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Introduzione
Il viso di Romano Prodi era pallido, terreo, mentre balbettava condoglianze e frasi di circostanza per commentare l’attentato alle Twin Tower, ma un politico è sempre un politico e deve saper leggere in termini politici un avvenimento, qualunque esso sia. Il professore modenese è il Presidente della Commissione Europea, una specie di Presidente del Consiglio in pectore, e comprende subito che il fumo che si alza da New York già annuncia foschi scenari.
Per mesi va avanti un balletto di notizie contrastanti, oggi guerra domani pace, ogni giorno esce dal cappello del prestigiatore un diverso bussolotto fino alla notte del 19 marzo 2003, quando i primi missili si abbattono su Baghdad ed inizia la carneficina irachena: migliaia di missili “intelligenti” cadono sulle città irachene, con una precisione del 90%. Il restante 10% si smarrisce in mezzo a tanta “intelligenza” e colpisce mercati affollati, ospedali, le case della gente terrorizzata; nei giorni precedenti la guerra vanno a ruba in Iraq i comuni registratori con cuffie per ascoltare musica: serviranno per proteggere i bambini, affinché non siano terrorizzati dagli scoppi.
Il viso di Romano Prodi, in quei mesi, appare sempre più raramente sugli schermi televisivi, quasi oscurato dalla nuova grandeur francese di Chirac, che si assume in pieno la responsabilità di opporsi agli USA minacciando l’uso del diritto di veto in Consiglio di Sicurezza: era dai tempi dell’URSS che non accadeva.
In pochi mesi Marte s’impossessa del proscenio, del palco e dell’intero teatro: sugli schermi compaiono nuovamente aerei che sfrecciano, militari che sfilano, fidanzate in lacrime che sventolano fazzolettini.
Era bella l’Europa dei banchieri, sembra raccontare il Presidente Prodi, era bella perché paciosa, linda, paesana come le mortadelle emiliane e non voleva saperne di guerre: giorno dopo giorno, in pace, il tenace muratore dell’unificazione europea aggiungeva un mattone, regolava la calce, ispezionava il cemento.
«Se pensavano di fermarci» confidò in un’intervista dopo la nascita dell’euro «ormai è tardi!». Ma il muratore per costruire deve lavorare in pace, in accordo con le parti, senza suscitare invidie o portare alla luce vecchie ruggini: costruire è un’arte difficile e meticolosa, si lavora in punta di penna o, al massimo, di fioretto. Sotto le macerie della Baghdad distrutta, se si cerca con attenzione, si scoprono le vestigia dell’Europa in frantumi: niente di meglio che un bombardamento per mandare all’aria anni di lavoro di tenaci e pazienti muratori.
Un’Europa paciosa dunque, attenta al welfare dei suoi cittadini: la via “etica” del capitalismo planetario, il liberismo filtrato, smussato, pazientemente lavorato per renderlo meno invadente e dirompente nelle sue manifestazioni estreme. Mentre negli USA si licenzia senza pensarci su due volte, si demolisce per ricostruire, in Europa si ristruttura, si cercano soluzioni soft per non giungere allo scontro con i sindacati che, a differenza degli USA, non sono semplici dipendenti dell’establishement o delle mille lobby e mafie americane.
Questo è il viso bonario e pacioso dell’Unione Europea, quello da presentare ogni giorno ai suoi elettori: una sorta di socialdemocrazia annacquata per salvare la capra del capitale e i cavoli dei lavoratori.
Ciò che invece stride è la necessità di presentarsi sulla scena internazionale in modo credibile; nella conquista di mercati ed aree d’influenza a nessuno frega niente se puoi o non puoi fare riforme strutturali come le pensioni: ciò che importa è se hai la coesione e la forza economica, politica e militare per raggiungere i tuoi obiettivi.
Ma il pianeta non è abitato solo da un miliardo di ricchi o, almeno, benestanti: ci sono altri sei miliardi che arrancano o, peggio, s’arrabattano per campare con un dollaro il giorno. Proprio nei confronti di quella bazzecola, quei sei miliardi d’indiani, argentini, messicani, pakistani, nigeriani bisogna proporsi, far intendere che a Bruxelles c’è una politica che li considera come attori e non semplici comparse.
Per l’Europa è una necessità di primaria importanza; a differenza degli USA non possiede una forza militare in grado di far pesare le parole, non può tacitare un qualsiasi "capetto" alla periferia del mondo inviando un paio di portaerei, che producono subito l’effetto di un Valium, semplicemente perché non ha quel paio di portaerei. Inoltre, anche se le avesse, prima di inviarle dovrebbe mettere d’accordo una dozzina di ministri degli esteri che, a loro volta, cercherebbero immediatamente d’intavolare trattative separate col rais di turno per provare a cavarci qualche vantaggio per sé a scapito degli altri.
«Avanti tutta, in ordine sparso» fu l’amaro commento di Romano Prodi all’inconsistente iniziativa politica europea in Medio Oriente per risolvere la questione palestinese, proposte alle quali la leadership israeliana rispose con una pernacchia, non concedendo nemmeno il visto d’entrata in Israele ai diplomatici europei.
Presa a schiaffi dal primo che passa dunque, perché si sa benissimo che i vari inviati dell’UE in giro per il mondo, siano essi diplomatici d’alto bordo o semplici funzionari d’apparato, alle spalle non hanno niente, nessuno che possa garantire un impegno durevole, una politica di largo respiro, tanto meno la sicurezza di essere protetti militarmente.
Alla débacle politica si cerca di porre rimedio con la forza economica che scaturisce dall’unione d’economie importanti mediante il collante di una moneta, l’euro, e si affida alla Banca Europea di Francoforte la soluzione taumaturgica d’ogni male: in fondo, ciò che rimane della costruzione europea sono quegli spiccioli che abbiamo in tasca.
Ma quegli spiccioli, spesso accusati d’essere portatori di un irragionevole aumento dei prezzi, sono l’unica moneta che può contendere al dollaro la leadership nel pianeta: da quando esiste l’euro c’è un’alternativa forte, credibile alla divisa a stelle e strisce e qualcuno dei sei miliardi che non partecipano al gran sabba dell’economia dei ricchi inizia ad accorgersene.
Questa è la sostanziale novità d’inizio millennio, non le armi di distruzione di massa (che continuano a riposare tranquille negli arsenali di almeno venti paesi), né il petrolio iracheno, tanto meno la questione palestinese. Ciò che s’inizia a temere a Washington è che qualcuno incominci a scambiare le proprie merci in euro e non in dollari, a trattenere come moneta di garanzia nelle proprie banche centrali più euro e meno dollari, questa è la vera paura.
La situazione internazionale è notevolmente più complessa di quanto viene raccontato dai trombettieri di regime, ed assomiglia sempre più ad un complesso gioco degli scacchi che coinvolge ormai l’intero pianeta: per questa ragione proponiamo una lettura degli eventi che si distanzia notevolmente dalla verità ufficiale. Lasciamo giudicare al lettore se lo spettacolo valeva il prezzo del biglietto.