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Salve a tutti. No, non ho avuto un rigurgito di presunzione ed ho deciso di presentarmi come Marco Travaglio sul blog di Beppe Grillo: semplicemente, torno alla luce dopo circa 60 ore di sospensione. Finalmente, tornata la corrente elettrica, posso di nuovo scrivere.
L’inizio è stato soft: tanta neve che scendeva sui tetti e sulla piazza deserta. Minuti: poi, ore e giorni.
Alla fine, più di mezzo metro di neve dappertutto: la mia auto, sotterrata dai vari passaggi dello spartineve, al termine della questione aveva un solo manto che si congiungeva, da terra al tetto.
In queste sessanta ore abbiamo vissuto quasi sempre senza corrente elettrica – no microonde, caldaia (pompa elettrica), ADSL, TV, Radio (non ho più trovato la vecchia radio a pile…), phon, ecc – poi senza pane (impastatrice del panificio ferma) e senza aprire il congelatore: quando va via la corrente, speri solo di salvare quel che c’è dentro e non lo apri per niente.
L’unico cordone ombelicale che ancora ci congiungeva al mondo era il telefono, quello normale, poiché la rete GSM è la prima a saltare. Anche quando è tornata la corrente, in TV c’erano solo canali grigi e muti.
Addossati alla stufa a legna – tecnologie semplici – ed alle candele (buona scorta, fatta più per sfizio che per altro al Lidl, anni fa) abbiamo cotto chapati[1] sulla stufa ed abbiamo trascorso così il tempo, impastando e caricando la stufa, che ci ha fornito abbondante calore per scaldarci e cuocere alimenti, acqua calda ed è stata addirittura usata come rudimentale phon. Si sa, le ragazze non tollerano d’avere i capelli sporchi nemmeno durante le emergenze.
Dalla scuola giungevano notizie contrastanti: era aperta, sì, ma non c’era praticamente nessuno, a parte quelli che abitavano a poca distanza. Altre erano state chiuse con ordinanze dei Sindaci, in qualche caso credo sia intervenuto il Prefetto. Per il resto, ognuno per sé e Dio per tutti.
La ragione di queste differenze è da cercare nella maledetta statistica, poiché chi chiude una scuola perde qualche punto nella classifica di merito che qualcuno, al termine di qualcosa, stilerà. Se, invece, non la chiudi e la passi liscia – ossia non finiscono corriere nei fossi e non cedono tetti – avrai vinto qualche punto nella classifica dei Comuni, nel campionato delle Municipalità, con tanto di bonus e maglietta premio. Dopo tanti anni, e con tanti punti accumulati, la gente comune vince un forno a microonde: i politici, una nomination alla Regione.
Se ti va male, meglio telefonare subito a qualche amico giornalista, per ridurre la cosa al suo “semplice ambito” di “emergenza non prevedibile”.
Ho ritenuto che, mettersi in strada con quel tempo, non fosse una priorità di quelle concesse dalla Protezione Civile in questi casi: d’altro canto, correre il rischio di un incidente per andare in una scuola vuota, non mi pareva cosa sensata. Oltretutto, perché nessuno ti ripaga i danni di un eventuale incidente.
Sui mezzi pubblici c’è poco da fare affidamento: le corriere possono arrivare, ma non comparire per ore. Come le diligenze dei Moschettieri.
La ferrovia, qui da noi, anche quest’anno è “sospesa” come lo fu tre anni fa. Allora, si trattò di “urgenti” lavori da effettuarsi sulla galleria del Belbo – quella che fece costruire Cavour per “forare” la Langa – oggi, invece, si tratta d’ammodernamenti resi necessari per portarla agli standard europei. Sempre la stessa galleria di Cavour, su una linea a binario unico: ma, tre anni fa, non esisteva l’UE? Non sapevano che c’erano dei regolamenti da rispettare? Perché non costruirne una parallela e raddoppiare, finalmente, la linea? Boh…
L’azienda che ha vinto l’appalto per i pullman sostitutivi è la stessa di tre anni fa: su…non fate quella faccia…io non ho scritto niente. Se credete nelle dietrologie, bisogna poi dimostrarle e, a me, della cosa importa assai.
Quello che più mi premerebbe, quando non c’è il treno, è che almeno ci fossero i pullman per sostituirli. Purtroppo, l’azienda che ha vinto l’appalto ha sede in Centro Italia e l’autista più “nordico” proviene da Roma: gente abituata alla neve, ci mancherebbe.
Dopo incidenti avvenuti (o mancati per poco), quando c’è neve la Polizia Stradale impedisce loro d’uscire dai depositi, quindi: rotaie coperte di neve e pullman sostitutivi abrogati. Insomma, non ti rimane che osservare i bagliori della stufa: chi ha un caminetto, gode anche dell’aspetto iconico.
Sia chiaro: non ce l’ho proprio con quei poveracci di Matera e di Campobasso che guidano i pullman. In queste condizioni proibitive, solo chi ha esperienza di neve e ghiaccio, ha pneumatici da neve, catene (quelle, mai viste) e l’insostituibile conoscenza del territorio può prendersi la responsabilità d’afferrare il volante. Un volante al quale sono affidate decine di vite: ne sa qualcosa mia figlia, che tre anni or sono trascorse dodici ore con la corriera scivolata in un fosso, senza riscaldamento e con una buona dose di paura addosso.
Sempre tre anni or sono, a qualcuno dei “dispersi” nella notte sulla A6 TO-SV andò peggio: trascorsero la notte nelle gallerie, mantenendo acceso a turno un solo motore per scaldarsi. Della tanto strombazzata Protezione Civile, nessun segno.
L’ultimo afflato della nevicata dello scorso anno, colpì una donna che era stata a sua volta colpita da infarto: niente paura, c’è l’elisoccorso. Peccato che, quando giunse l’elicottero, nessuno aveva provveduto a sgombrare l’eliporto e la relativa strada d’accesso. Ad ogni buon conto, quando arrivò il carro funebre, la strada era sgombra.
Due parole dovremmo spenderle anche per chi deve sgomberare la neve dalle strade: secondo le direttive, se c’è la neve – stesi complessi memorandum fra le parti – c’è chi deve sgombrarla. Così parrebbe.
Il problema è che i Comuni hanno le casse sempre vuote e, allora, varano aste al ribasso che più ribasso non si può. Anche qui, non vorremmo cedere alle sirene che narrano di rapporti “strettissimi” fra qualche amministratore e le aziende – non lo possiamo affermare perché non ne abbiamo le prove – e quindi vorremmo invitare i lettori a non percorrere i fantasiosi sentieri della speculazione sulle corruttele. Se esse esistessero, magistrati come la Forleo e De Magistris ce lo racconterebbero subito.
In definitiva, i “ribassi” sono così bassi che le aziende puntano su Giove Pluvio: ossia, ci “stanno dentro” solo se non nevica o se nevica pochissimo.
Se i decimetri iniziano a sommarsi ai decimetri, i litri di gasolio e le ore da pagare iniziano a pesare un po’ troppo alla voce “spese”, e finiscono per “raffreddare” i motori. Si “passa”, sì, quel tanto che basta per dire che si è passati, per togliere il “grosso”, sperando che il grosso non diventi enorme.
Inutile dire che le aree di parcheggio e quant’altro non vengono nemmeno prese in considerazione: l’auto ideale, in questi casi, è quella “tascabile”, nel senso che quando arrivi la ripieghi nel portafogli. In alternativa, usare i mezzi pubblici (quando e se ci sono), oppure il treno che è sostituito da autobus senza catene, arrestati dalla previdente Polstrada prima che combinino guai.
Le Ferrovie, interpellate sul motivo della “pause” sempre invernali, rispondono che a loro conviene così: siamo un’azienda, siamo finalmente sul mercato, per Dio! D’estate, si guadagna di più con i treni dei villeggianti che vanno al mare! Che volete che ci freghi di questi straccioni – studenti e lavoratori – che pagano un misero abbonamento!
Terminata l’emergenza, siamo riemersi (dopo aver spalato per ore) e sono tornato a scuola. La prima cosa che ho fatto, è stata collegarmi alla rete per osservare cos’era successo nel pianeta.
Niente di grave: un paio di scarpe per Bush, tanta paura per la temuta esondazione del Tevere, un Governatore in più al Pd + L ed uno in meno al Pd – L, la strabiliante novità delle corruttele fra i boiardi di Stato ed i loro lacché politici. Business is usual.
Ho cercato qualche notizia che riferisse sull’emergenza appena trascorsa, ma ho trovato poco. Mia madre ci riportava qualcosa al telefono – da lei pioveva ed abita in collina, nessun pericolo d’inondazione, al massimo qualche frana di quelle che sulle strade restano recintate dal nastro rosso per anni – e raccontava che i solerti giornalisti del TG3 regionale riferivano che, in provincia di Cuneo, c’era qualche problema…sì…ma lo spettacolo di tanta neve era stupendo e gli albergatori – finalmente! – intravedevano una stagione sciistica come non se ne vedevano da anni! Insomma, mercato über alles.
Qualche minuscola testata locale riferiva che, ancora nel pomeriggio di Lunedì 15 Dicembre 2008, le utenze prive d’energia elettrica nel cuneese erano 48.000. Non ho trovato dati sulla parte di competenza ligure, ma immagino che fossero parecchie anche lì. Insomma, facendo due conti a spanne, c’erano 200.000 persone senza corrente, ma lontane dalle città. Gente che non fa numero né è degna d’informazione: per questo riteniamo di doverlo fare noi – che qui eravamo – per prima cosa come dovere di cronaca.
Se la cosa si concludesse qui, avremmo probabilmente compiuto il nostro dovere di cronisti, ma – siccome la terza pagina ci ha sempre affascinato – non ci limitiamo all’informazione, perché rischierebbe dì tramutarsi in sterile lamentazione.
L’analisi, dopo aver sintetizzato gli eventi, parte proprio dal rapporto fra popolazione e territorio, poiché in Italia riusciamo ad individuare una moltitudine d’universali fra loro concorrenti, oppure simbiotici, in altri casi metà e metà. Si va dai cattolici ai non credenti, dai “destri” ai “sinistri”, dai settentrionali ai meridionali, fino agli eterosessuali ed agli omosessuali, e chi più ne ha più ne metta. Per Guelfi e Ghibellini, il tempo per presentare la domanda è scaduto: ci spiace.
Anzitutto, pochi, sintetici dati sulla disposizione della popolazione italiana sul territorio[2]:
Il 75% circa della popolazione italiana vive in comuni superiori ai 15.000 abitanti.
Il 25% in quelli inferiori ai 15.000 abitanti.
I comuni con più di 15.000 abitanti sono il 15% circa del totale.
Quelli con meno di 15.000 abitanti sono il restante 85%.
Inoltre, il 55% dei comuni è compreso nella fascia da 2000 a 5000 abitanti: più della metà dei comuni italiani, quindi, sono dei “Fort Apache”. Lo squilibrio è evidente.
Gli spostamenti migratori sono complessi, ma tendono comunque all’accentramento: non più verso le grandi città (laddove i centri sono adibiti soprattutto al terziario), ma verso le “cinture”, dove crescono comuni con numero d’abitanti a cinque zeri.
Insomma, la popolazione italiana va verso un “naturale” ed inarrestabile inurbamento: certo, passare giorni completamente isolati, fa passare la voglia di rimanere a Fort Apache. Soprattutto, perché delle migliaia di Fort Apache non frega un accidente a nessuno.
La disposizione della popolazione sul territorio – oggi – ancora compete alla politica? E’ fuor di dubbio che, se lo domandassimo a Stalin o ad Hitler, risponderebbero con un entusiastico “sì” senza condizioni, ma il loro parere – in questi frangenti – non ci può interessare. Soprattutto perché vissero un’altra epoca e poiché non vorremmo dover sloggiare per far posto ad altri: non sono questi i termini della questione.
Se, invece, riteniamo che il “mercato” debba essere prevalente – come sembrano affermare i Pd +/- L – andiamo dai parenti della donna morta perché l’elicottero non è potuto scendere, e magnifichiamo loro le straordinarie potenzialità del mercato. Un consiglio: munirsi di giubbotto antiproiettile o, per lo meno, calarsi un secchio sulla testa a mo’ di elmetto.
In definitiva, fra mercato ed assolutismo politico, finiamo per rimanere schiacciati non dalla neve, ma da una massa d’inconcludenze, da una raffica di non decisioni, da milioni di struzzi con gli occhi nella sabbia ed i culi all’aria. I quali, sollevano il gozzo solo il giusto tempo per rimpinzarsi a dovere.
Si tratta di una questione di risorse? Della loro gestione?
Dipende da quale gestione delle risorse immaginiamo per il futuro.
L’UE non serve a niente, l’UE serve a qualcosa: sfoglia la margherita, intanto fuori nevica.
Eppure, l’UE finanzia interventi sulla rete elettrica per ammodernarla: si deve passare da un sistema centralizzato – produzione in pochi centri e consumo sul territorio – ad uno policentrico, ossia produzione e consumo “spalmate” sul territorio in modo abbastanza omogeneo.
La produzione ed il consumo delle risorse sul territorio, a ben pensarci, segue la naturale presenza delle stesse: il principio vale per l’energia, ma anche per l’acqua, il legname, gli alimenti, ecc.
Ovviamente, non tutte le risorse sono disponibili ovunque in modo omogeneo: le piantagioni d’agrumi scarseggiano qui, in Piemonte, ma per le principali – acqua, energia, legname, alimenti, ecc – possiamo affermare che sono presenti quasi dappertutto.
L’energia, se consideriamo le varie fonti rinnovabili, sarà presente sotto diverse forme: vento sulle coste, sole nel Meridione, biomasse nella Pianura Padana, acqua quasi ovunque, ecc.
La distribuzione abbastanza omogenea delle risorse cozza violentemente con i grandi agglomerati urbani: può esistere soltanto a patto che il costo dei trasporti sia veramente esiguo e che il territorio ancora consenta nuovo cemento per le infrastrutture.
I grandi agglomerati urbani sono vere e proprie “idrovore” di risorse: riflettiamo sulla quantità di farina che deve essere trasportata a Roma, ogni giorno, per avere qualche michetta al desco. Sono approssimativamente 650 tonnellate, il carico di 23 autosnodati. Ogni giorno, per la sola Roma, e soltanto per il pane. Moltiplichiamo gli autotreni per il cemento e la frutta, la carta ed il vino, e otteniamo le paralisi del traffico che ben conosciamo.
Il sistema dei trasporti necessita di profonde trasformazioni poiché, la scelta “tutto strada” operata in Italia molti anni or sono, mostra oggi i suoi limiti. Ho cercato d’analizzare il problema in un libro – “Il futuro dei trasporti”, edito da Arianna Editrice in formato pdf, euro 5,90[3] – che spazia dal problema energetico relativo ai trasporti, ai nuovi mezzi, fino alla re-definizione di un modello più efficiente, che usi le acque (marine ed interne) in alternativa alla gomma.
La scelta del formato pdf è stata quasi “obbligata” per le dimensioni del libro: considerando i costi di stampa casalinga, si può avere il testo per circa 10 euro, mentre in libreria ne costerebbe almeno 20.
Se l’analisi del problema dei trasporti è complessa, e richiede approfondito dibattito, ancor più ne merita il rapporto fra popolazione e territorio. Dal mio modesto punto d’osservazione, posso verificare che i ragazzi che abitano nelle migliaia di “Fort Apache”, terminata la scuola superiore, vanno all’Università e poi non tornano più. Cosa tornerebbero a fare, in zone dove non ci sono aziende ove mettere a frutto le loro competenze?
Le attività produttive per la gestione delle risorse non sono sterili giochi di finanza: sono lavoro, produzione, trasformazione, magazzinaggio. Storie di realtà.
Ovviamente, chi vuole rimanere nei “Fort Apache” dovrà rimboccarsi le maniche il che, vista la panoplia di mezzi tecnici a disposizione, non è più una fatica di Sisifo. Si tratta, più che altro, di una mentalità tipicamente italiana che non ha molti riscontri all’estero.
Un padre italiano, che si sente dire dal figlio: «Da grande, voglio fare l’agricoltore», risponde subito: «Va beh, per ora studia, poi si vedrà» e intanto pensa “Questa è appena sotto, come disgrazia, all’AIDS”.
Poiché, nella lingua italiana, il termine “agricoltore” ha una serie di sinonimi che sono tutti un programma: da contadino a villano, da bifolco a villico, da campagnolo a burino, bovaro, bracciante, colono…
E tutti questi termini sono ammantati da un alone dispregiativo: se tocchi la terra, non arriverai mai al Cielo. In questo, assomigliamo al più antico impero del Pianeta – la Cina – che per millenni fu governata dai Mandarini, funzionari statali che portavano lunghe maniche che coprivano le mani. Il significato dell’abbigliamento era che non dovevano usare le mani per lavorare: concetto molto in voga anche nello Stivale.
In altri paesi europei si pone molta attenzione nel proteggere l’agricoltura e la gestione delle risorse sul territorio (si pensi alla Francia!), oppure la silvicoltura come in Austria ed in Scandinavia. Quando iniziò il mercato dei pellets per il riscaldamento domestico, chi aveva strutture ed organizzazione sul territorio divenne leader del mercato. In questo modo, si opera un’intelligente simbiosi fra industria del legno e gestione degli scarti in funzione energetica: in definitiva, si fornisce alle nuove generazioni dei “Fort Apache” un mezzo di sostentamento dignitoso.
Il problema passa anche per il mondo dell’imprenditoria, che in Italia – a fronte delle sempre presenti richieste di “attenzione” ad ogni Finanziaria – ha mancato clamorosamente la possibilità di creare imprenditoria diffusa con i fondi europei. Noi, li abbiamo usati per costruire truffe e capannoni abbandonati e, quando un magistrato lo scopre (De Magistris), viene trasferito. Perché?
Poiché imprenditoria diffusa – piccole aziende sul territorio, ricchezza per molti – cozza contro un assioma incontrovertibile del capitalismo italiano: il controllo della ricchezza deve rimanere nelle mani di poche famiglie, le quali – grazie alla simbiosi con la classe politica (in definitiva, la vicenda della Campania, cosa racconta?) – continuano ad incrementare ricchezze senza concorrenti.
Tutto il resto ne discende: le leggi che, sulla carta, favorirebbero le cooperative agricole per l’utilizzo delle terre non coltivate, sono depotenziate dai regolamenti attuativi. Le farraginose e complesse procedure per diventare produttori d’energia in loco, seguono l’identico principio. E ce ne sarebbero tante altre.
L’unica leva che potrebbero avere i cittadini, per scardinare un simile obbrobrio, dovrebbero essere le amministrazioni locali. Se non si riesce a farlo, non è solo una vicenda di corruzione.
In Italia, le Regioni sono rette dai relativi Presidenti, i quali sono impropriamente definiti “Governatori”, quasi fossimo negli USA, i quali hanno un sistema politico/amministrativo completamente diverso. Insomma, tu vò fà l’americano…
Se riflettiamo sulla genesi e sull’affermazione di questi “Governatori”, scopriamo che sono scelti dapprima dalle segreterie dei partiti senza nessun intervento della popolazione, quindi imposti con delle elezioni che si basano soprattutto sul mezzo televisivo.
In questo modo, chi controlla le reti TV decide gli esiti elettorali, inutile girarci attorno. La scoperta dell’acqua calda? Aspettate.
Dopo la loro elezione, chi ancora ha dei contatti con questi “Governatori”? Che cosa forniscono al cittadino, a parte la sanità più costosa ed inconcludente d’Europa?
Si schierano – in modo assolutamente bipartsan – con le richieste del “mercato”. Mercedes Bresso, da anni, funge da “pompiere” per far digerire agli agitanti della Val di Susa il progetto TAV. Non importa se gran parte della popolazione è contraria: lei, è lì soltanto per eseguire degli ordini, da Di Pietro a Berlusconi, andata e ritorno.
Formigoni sbraita perché la nuova “Freccia Rossa” (il treno superveloce) finisce per far sostare per ore sui binari morti i treni dei pendolari e giunge – per bocca del suo assessore ai Trasporti – a minacciare lo stop per il prestigioso “gioiello” di Trenitalia. Attenzione: non minaccia direttamente, lo fa per interposta persona, così domani potrà smentire, in pieno stile democristo.
E poi: Bassolino e la monnezza, Cuffaro, Del Turco e le loro condanne…insomma, questa gente casca sempre in piedi. Perché?
Poiché il loro ruolo non è quello di “Governatori”: non devono governare nulla, bensì imporre.
L’appellativo che meritano è quello di fonte tedesca: Gauleiter (lett. “Caporegione”), ossia di coloro che s’occuparono di “germanizzare” i territori occupati dal Reich dopo il 1938.
La funzione dei Gauleiter non era quella di “governare”, almeno nell’accezione odierna, ossia quella di ascolto/riflessione/proposizione. Erano dei semplici funzionari che dovevano far rispettare i voleri di Berlino, soprattutto per l’acquisizione di risorse e di forza lavoro.
Riflettiamo su quanti e quali rapporti hanno gli italiani con i loro 20 Gauleiter: nessuno. Chi è mai riuscito ad interloquire con loro? E nemmeno con i loro sottocapi delle Province. Già è difficile parlare cinque minuti con un sindaco.
Sono un ceto dorato che emette decisioni, ma che non ascolta proprio nessuno, giacché la nomina e l’appoggio per la rielezione non verranno loro dai cittadini, bensì dai vertici del Reich.
Se la loro carriera è determinata non dai cittadini, bensì dal soddisfare i desideri che giungono dall’alto, perché dovrebbero “scaldarsi” per ascoltare?
Così, nei mille “Fort Apache”, non prenderanno mai forma le possibilità di trarre ricchezza dal territorio senza violentarlo: alcuni esempi?
Ci sono 850 MW di potenza elettrica che potrebbero essere captati dalle cadute dei piccoli corsi d’acqua (potenze inferiori ai 10 MW)[4], quelli “polverizzati” sul territorio e mai presi in considerazione. Forse, la cifra è ancora approssimata per difetto.
Il patrimonio boschivo continua ad incrementare: dall’Unificazione è più che raddoppiato[5]. Le segherie, invece d’incrementare, chiudono: gli austriaci vendono pellets e ringraziano.
La generazione d’energia potrebbe avvenire anche mediante piccoli aerogeneratori con pale di pochissimi metri e nessun impatto ambientale: caterve di scartoffie da presentare, e non se ne fa nulla.
La produzione olivicola italiana copre soltanto il 30% del consumo d’olio d’oliva, il resto è importato: siamo convinti che, per molti giovani, non sarebbe proprio un’ignominia gestire un oliveto. E’ forse più dignitoso avere un impiego a termine in un call centre per 500 euro mensili?
Chi dovrebbe realizzare gli strumenti per avviare nuovamente una “colonizzazione” dell’Italia dimenticata, spopolata, sempre più selvaggia? Chi potrebbe, nuovamente, far rifiorire la cultura dei mille villaggi?
Noi, pensiamo che questo sia il vero compito di una classe politica, non altro. E non si speri che la riforma federale proposta dalla Lega Nord possa cambiare qualcosa: la nuova “porcata” di Calderoli non presenta nulla di nuovo, se non una re-distribuzione di risorse fra le varie componenti. Lo stesso ministro, ha affermato che «tutti saranno garantiti». Loro, ovviamente.
Ci sarebbe tanto, ma veramente tanto bisogno di buona politica. Giuro che, il prossimo che mi parla di “antipolitica”, lo passo a fil di spada.