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“Ogni forma che tu vedi ha il suo archetipo nel mondo senza spazio.
Se la forma perisce, non importa, l'originale è eterno."
Jalad ud Din Rumi – Persia – secolo XIII
Spesso, le sere nelle quali vaghiamo fra domande senza risposte, nelle selve dei punti interrogativi, sono destinate a rimanere tali. Sconsolante – vero? – ma, il più delle volte, così è.
Gli orizzonti si susseguono, l’uno dopo l’altro e li valichiamo con gli stivali delle sette leghe, con la velocità del vento che ci sospinge. Oltrepassiamo interi universi senza renderci conto dei tesori che contenevano.
E’ così anche questa sera, con i primi fiocchi di neve che trapuntano il cielo, e mi domando se – ancora una volta, per spostarci – saremo abbandonati a noi stessi ed ai misteriosi protocolli della burocrazia. Globalizzata anch’essa.
Un tempo – quando gli uomini si fidanzavano ogni giorno con la natura – la neve era un avvertimento soffice, l’invito a soffermarsi un momento nell’aia, oppure a perdere fanciullescamente il senno fra i gorghi della polenta che coceva nel paiolo, ribollente di schizzi.
Venne poi l’era nella quale tutto era sacrificato alla produzione – perché produr si deve, produr bisogna – e s’iniziò a non guardare più in faccia né al vento, né alle stagioni. C’era, almeno, la giustificazione che tot automobili e tot pezze di lana trepidavano nella vigilia di prender forma, poiché erano attese.
Oggi, osservo i tetti del borgo e – con l’immaginazione – valico soffitte ed appartamenti abbandonati da decenni, per accompagnarmi – folletto invadente – a chi sotto quei tetti vive. Scopro così, mentre volteggio ancorato alla mia corda d’argento, sguardi persi su pallidi schermi, sonni accompagnati da minute pasticche, religiosi afflati consegnati a minuscoli lumi votivi, che illuminano fiocamente sbiadite immagini d’antichi santi.
Nel freddo, contenuto dalla neve del mattino, la mia è una delle poche auto a spostarsi: segno che nessuno deve recarsi al lavoro. Legioni di pensionati attendono – nei loro grandi appartamenti del tempo che fu, quando risa accompagnavano il canto di giovanette in età da marito – il solo, grande avvenimento che possono aspettare. Che avverrà col caldo di Giugno o nel freddo di Gennaio, ma sempre all’uscita principale dell’antica cattedrale.
Eppure, nonostante le condizioni del tempo siano quasi proibitive, il senso del dovere ci chiama per raggiungere una scuola annoiata, con metà o ancor meno dei presenti: a nulla servirà tanta dedizione. Le poche fabbriche che tentano ancora di produrre qualcosa, lo fanno in condizioni di lavoro che ci hanno quasi riportato indietro nel tempo: la sicurezza è sacrificata all’altare della produzione ad ogni costo, e quei prodotti non sempre sono attesi. Bisogna allora forzare la mano e creare inesistenti attese, accorciare la durata d’ogni bene affinché sia usurato prima possibile, poiché prima del tempo si distrugga[1].
Conosciamo bene questo percorso, ed è inutile riproporlo: era solo per segnare con una tacca l’inizio dei nostri ragionamenti, del nostro vagare fra le pagine elettroniche.
Eppure, nonostante in molti s’inizi a comprendere che la corsa dell’umanità è oramai folle, non si riesce a rallentare l’ingranaggio che – Charlie Chaplin c’avvertì con largo anticipo, in “Tempi moderni” – ci sta stritolando.
Noi, eteree figure che scriviamo sul Web e che firmiamo con nomi veri – i quali corrispondono a persone in carne ed ossa – assistiamo impotenti alla scarsa incidenza dei nostri sforzi. I nomi sono i soliti, quelli che si leggono su molti siti e blog, e non li nomino per non scontentare nessuno.
Tra di noi, talvolta ci si conosce personalmente, mentre nella maggioranza dei casi si hanno contatti via Web: una mail per avvertire di un incontro, un ringraziamento, qualche elogio per un brano ben scritto.
Sull’altro piatto della bilancia, un po’ d’esibizionismo, qualche complesso da “primadonna” e – per fortuna molto raramente – qualche lama che s’incrocia. E che lascia solo una scia evanescente, d’elettronico inchiostro.
Viene allora la domanda, che talvolta chi legge si chiede e pretende, sul perché “non ci mettiamo insieme”, non riusciamo a costruire qualcosa. Me lo sono chiesto anch’io, tante volte.
Chi legge – oramai l’abbiamo capito – crede nella gran parte dei principi esposti: una sorta di “controcultura” prende forma, a testimoniare che sulla gran parte delle cose la pensiamo allo stesso modo.
Il problema, che qualcuno recentemente citava a proposito di Beppe Grillo – sostenendo che il comico genovese avesse perso “l’attimo fuggente” per fare “massa critica” contro il sistema delle Caste – rimanda allora alla creazione di cultura, con una domanda: può, la cultura, divenire in qualche modo “massa critica”?
E, qui, ci scontriamo con un dilemma di denominazione, ossia definire cosa sia la cultura e, di riflesso, chi siano coloro che tentano di produrla.
Chi produce cultura, almeno in Italia, viene definito “intellettuale”, termine – a mio avviso – un po’ desueto, poiché dovremmo stabilire se i cori di trombe di regime siano, anch’essi, “cultura”. Maurizio Costanzo fa cultura? O intrattenimento? E Santoro?
Un primo aiuto, per me molto chiaro, viene dalla definizione di “intellettuale organico” che dà Costanzo Preve, ossia di uno studioso che è organico – e, oggi, non solo per il pensiero – con una parte politica.
Essere “organici” non è un peccato mortale, però ciò distingue l’intellettuale dallo studioso, il quale potrà – ad esempio – riformulare le sue analisi, senza temere gli strali della nomenklatura.
Stabilito che le frange estreme dell’elettorato italiano non hanno più referenti politici, la “organicità” dell’intellettualismo italiano (sempre nell’accezione di Preve) è quindi condannata a convivere con poche forze politiche, che sono tutte plaudenti al “mercato” ed alla globalizzazione, pur sapendo che la gran parte dei guai che ci affliggono è da lì che vengono. Ma, essendo “organici”, non hanno scampo.
Potranno “limare” fin che desiderano gli aggettivi, dar sfoggio di potenza espressiva, ma non riusciranno mai a forare il cielo, perché sanno che oltrepassare la coltre di nubi li condurrebbe, inesorabilmente, fra i perdenti, a trasmutarsi in soli “studiosi”.
E coloro che non sono “organici” – e quindi non “intellettuali” ma solo “studiosi” – quale compito si trovano ad affrontare?
Spesso, s’avvertono fra i commentatori strali di critiche gratuite: si distingue chiaramente chi pondera attentamente ciò che si scrive da chi è sorretto solo dal desiderio d’apparire. O, peggio, da chi replica – ben protetto da astrusi nick – dalla segreteria di un partito.
Questa precisazione può apparire superflua o, in alcuni casi, offensiva, ma è necessaria per il proseguo della nostra analisi.
Chi non è targato qualcosa, intravede orizzonti immensi da percorrere, ma si trova anche desolatamente solo nel dipingere ciò che osserva, quasi senza riscontro né riferimenti. Magari, qualcuno si sforzasse di replicare proseguendo su quel percorso.
Quando scriviamo di decrescita, di truffe sulla moneta, d’attentati ai valori fondanti della Costituzione, sul lavoro, sull’energia, l’istruzione, la giustizia…finiamo per ripercorrere un sentiero dal quale osserviamo molteplici aspetti della rovina morale, economica e politica del nostro Paese (e dell’intero Pianeta).
A forza di raccontare nequizie, provare tesi scomode e dipanare le ingarbugliate matasse dell’informazione di regime, si è spossati, stanchi, anche un po’ depressi.
E’, allora, proprio in queste sere perdute che ci viene in mente d’abbandonarci alla ricettività: basta scrivere, basta dissertare. Ascoltare.
Così, getti nella feritoia un dvd e guardi un film, non sapendo se ti metterà sonno o se ti donerà qualcosa. In entrambi i casi, qualcosa c’avrai guadagnato.
Il film è “Fiorile” dei fratelli Taviani[2]: almeno, prima d’affidarti, scegli qualcuno che dia affidamento.
E cavalchi, senza accorgertene, in due secoli di profonda Toscana, ch’è sempre stata il concentrato d’emozioni ribollenti e genuine, narrate senza mediazioni, come solo la scuola del Sommo poteva donare.
Il ricucire gli accadimenti storici, abbinandoli alle vite vissute, è prassi del cinema di qualità: “Novecento” o “Barry Lindon” hanno usato la stessa metrica, accomunati da grandi firme della regia cinematografica.
Queste “cavalcate” fra i secoli, spesso, sono guardate con troppa distanza: comprendo che chi oggi è giovane stenta a trovare legami con quei mondi, ma chi ha vissuto i tempi ed i ritmi del vecchio mondo agreste, ritrova quei legami. Seduto sulla sponda di un carro trainato da un mulo, raccoglievo le drupe d’uva spina dalla siepe al ritmo ballonzolante di un mezzo ch’era esattamente uguale ai carriaggi che si vedono, oggi, solo nei film d’epoca.
Cos’altro ci lega alla nostra Storia? Non le cronache narrate nei libri – toccano corde ancora troppo superficiali – bensì quelle emozioni che dischiudono una lacrima, che sospirano l’animo. Qualcosa ha insegnato De André, operando su storie antiche – pensiamo a Creuza de ma, sorprendentemente il suo album più venduto – che ci riportano all’oggi, a qualcosa che sopravvive dentro di noi, mentre conduciamo questa vita forsennata, nella quale nessuno è più “qualcosa”. “Fare tutto è diventato un’esigenza”, ricordava Ivano Fossati.
Dobbiamo allora domandarci – come “studiosi” liberi da ogni marchio – perché certe scene di un film scatenano emozioni, strappano lacrime, amareggiano, lasciano l’animo colmo di gioia. Sono emersioni di sentimenti che non si possono addurre soltanto alle storie individuali – non apriamo qui, per favore, antichi dibattiti fra sociologia e psicologia – perché vanno ad incidere più nel profondo.
Il cinema ci presenta figure incastonate nei loro vissuti: eppure, trepidiamo, c’arrabbiamo, soffriamo. Qui la Gestalt è scavalcata perché non c’è spazio per crearla: rimane solo una possibilità, l’idem o l’alter con il personaggio. Se non scattano né l’uno e né l’altro, scatta il dito sul telecomando ed andiamo a letto.
In che modo, però, c’identifichiamo? E con quali parti dei personaggi – che sappiamo benissimo essere professionisti della scena, ma in quel momento non importa – finiamo per identificarci, per compiere un tratto di percorso insieme a loro, nella Roma imperiale o nel Giappone medievale?
A restringerle un poco, non sono molte: il sacerdote (o saggio, stregone, monaco errante, ecc), il guerriero (eroe, coraggio, rettitudine, ecc), il mercante (sagacia, astuzia, ponderatezza, ecc) e pochi altri. Più facile l’identificazione maschile (la Storia è stata fatta e scritta prevalentemente da uomini), più difficile e ristretta a poche figure quella femminile.
Qui s’aprirebbe uno spiraglio assai interessante: come può, l’universo femminile oramai slegato dai simboli tradizionali, trovare figure di riferimento che non siano legate al focolare? Si chiede alla donna d’essere qualcuno che non ha passato, e si desidera assegnare alla donna compiti che sono, per lei, nuovi? Ci sarebbe materiale per un altro articolo.
Le figure archetipe, invece – i riferimenti arcaici – per la popolazione maschile esistono, e sopravvivono in posture dell’animo oramai nascoste, perché il cammino della nostra civiltà ha dovuto frantumarle.
E’ stato un percorso graduale, che ha condotto l’umanità a dimenticare – anno dopo anno – i suoi riferimenti arcaici.
La perdita degli archetipi non può essere sottovalutata, soprattutto da coloro i quali addossano tutte le responsabilità dell’attuale crisi (che è una crisi di civiltà, non di società) a semplici fattori economici. Se così fosse, sorgerebbero – potenti – dal corpo sociale precise ed organiche richieste di cambiamento, e sarebbero dinamiche positive ed inarrestabili, nonostante la censura mediatica.
Invece, le proposte sono frammentarie e sconclusionate: e, questo, avviene da parte di chi le propone, ma anche dalla confusione di chi ascolta e, a sua volta, ripropone “aggiustamenti” con un semplice meccanismo di scelta multipla, quasi si trattasse di un test. Insomma, “quoto” e “non quoto”, e finisce lì.
Se la civiltà occidentale s’afferma col mercantilismo, prosegue con il colonialismo, la rivoluzione industriale e, infine, entra in crisi proprio per la ri-proposizione acritica di modelli non più attuali, nel corpo sociale non esistono più valori di riferimento per una critica fondata – e dunque, “forte” – e quindi fruttuosa per sua stessa natura. Nel panorama variegato della civiltà occidentale, iniziano a crollare quelli che furono i suoi valori fondanti: la religione, ad esempio, ridotta a semplice secolarizzazione e sbiadito spettacolo dell’evento devozionale e filosofico. Per salvare il salvabile, s’elegge un nero alla presidenza americana e si “sdogana” il seminario di Lefebvre, ma lo sfondo rimane il medesimo.
La cultura va in crisi perché il controllo della stessa avviene mediante complessi meccanismi di coercizione economica, a loro volta diretti dal potere politico, ma non dimentichiamo che si tratta di un aspetto dialettico: i “controllori” non sono soltanto il misero prodotto di un processo, una società segreta, un manipolo di nuovi “carbonari” che si riuniscono a Davos. Prima di giungere a quel punto, hanno maturato in loro stessi la perfetta condizione di smarrimento dell’archetipo, dello scrittore e del politico, del filosofo e dell’economista. Si rifugiano, allora, nella stregonesca credenza che il mercato possa tutto sanare: ma, questa impostazione, è la resa totale dei loro archetipi, che avevano anzitempo smarrito.
Quali potrebbero essere le risposte?
Prima, l’analisi, altrimenti non si va da nessuna parte.
L’Europa ha vissuto due rivoluzioni: la prima – 1789 – tentò di cancellare i residui del mondo medievale e ci riuscì, “uscendo” con la creazione della nuova aristocrazia napoleonica. La quale, non essendo più il prodotto di millenarie casate e nemmeno si giustificava per diritto divino, si poneva proprio come contraddizione aperta e lampante con il passato, senza che gli attori dell’epoca n’avessero coscienza.
La seconda – 1917 – partì con giustificazioni teoriche apparentemente solide, ma avvenne in una nazione impreparata a riceverle: Marx, immaginava la rivoluzione socialista in Germania o (con minore probabilità) in Gran Bretagna.
Invece, fu creata una nuova borghesia – la burocrazia del PCUS – che sopperì alla secolare mancanza di quel ceto nella Russia zarista: fu una sorta d’attuazione (con le ovvie differenze) del dettato decabrista di quasi un secolo prima. Al punto che, la nomenklatura sovietica, intitolò agli antichi rivoluzionari ottocenteschi un’isola nel Golfo di Finlandia.
La nuova borghesia sovietica portò a compimento un processo (con tutti gli errori del caso, ovviamente) e consegnò al III Millennio una nazione con strutture e cultura abbastanza simili al resto d’Europa.
Ma, ricordiamo, non ci fu nessuna rivoluzione socialista.
Cosa attende, oggi, il Pianeta per ripartire? Noi, nessun altro.
Aspetta una nuova generazione di “intellettuali” – questa volta non “studiosi” perché nuovamente organici a fresche scuole di pensiero e rinnovate formazioni politiche, addirittura “ideologiche”, potremmo azzardare – la quale stenda, con dovizia di prove, il certificato di morte della civiltà mercantile per come la conosciamo da almeno cinque secoli. Una “balletta”, ovviamente.
Quindi, ripartendo da quel “certificato”, sgombri le macerie di un falso intellettualismo e ne stenda le basi per crearne, infine, uno totalmente nuovo.
Ovvio che le questioni economiche sarebbero le prime a venire al pettine, ma anche sul concetto di decrescita ci vorrebbe un bel dibattito: non tutti assegnano al termine l’identico significato.
E – l’uomo che torna a prendere su di sé la responsabilità di quel che si produce, di come produrlo e quanto produrne – potrà sorvolare tranquillamente sulle simbiosi/interazioni/contraddizioni che il nuovo modello imporrà nel sociale?
Poiché, per uscire dall’attuale, terrificante parabola calante del mercantilismo (da alcuni, definita proprio in termini spregiativi “mercatismo”) non ci può essere che una presa di coscienza: solo noi possiamo decidere quante automobili servono, quanto dovranno durare, chi e come dovrà produrle…altrimenti, l’attuale fase – oramai marcescente – della globalizzazione ci trascinerà in un vortice terrificante di guerre, ingiustizie planetarie, disastri economici, ambientali, sociali.
La responsabilità è ardua. Affrontabile? In tutta coscienza, non lo so. Perché?
Poiché, nel frattempo, sono stati frantumati – sono stati proprio spezzati gli stampi – gli archetipi fondanti dell’ordinamento sociale. Non si tratta di semplici defaillance del modello: esso, è proprio tramontato.
Il funzionario austro-ungarico è ricordato per antonomasia come l’archetipo fondante dell’integerrimo impero multietnico, e fu bersaglio dell’ironia risorgimentale italiana. Raffigurato come un codino e sparagnino esecutore del potere asburgico, in realtà era una figura forte, che avvertiva l’importanza della sua funzione. A sua volta, la burocrazia imperiale riconosceva ampiamente e sotto molti aspetti (economici, normativi, ecc) l’importanza dei funzionari, come insostituibili “tasselli” della costruzione imperiale. Dunque, come i Mandarini cinesi, il funzionario asburgico rappresenta in qualche modo un archetipo.
L’insegnamento fu, per molto tempo, considerato quasi una “missione”, al pari del medico, e non un semplice “mestiere”. Quasi un’arte.
C’era, da parte dello Stato, il riconoscimento di questa figura mediante un trattamento economico e normativo che la favoriva, che gli riconosceva l’importanza del suo agire.
Con questo, non si vuol affermare che non siano esistiti pessimi insegnanti (probabilmente esistettero anche in passato, ma solo le “vette” sono ricordate), ma che l’archetipo dell’insegnante era, almeno, preservato. Oggi, gli insegnanti ricevono gli adeguamenti salariali sulla base della tabella “operai-impiegati-insegnanti”: il che, la dice lunga sul loro prestigio sociale. Vengono mantenuti in servizio fino a 65 anni, poiché nessuno prende mai in considerazione le difficoltà – oggettive – che esistono nel dialogo fra le generazioni. Perché non fanno cantare i tenori o le soprano fino a 65 anni? Poiché i risultati sarebbero evidenti, mentre fra le mura delle scuole non si sa cosa avviene. In ogni modo, l’archetipo è oramai frantumato.
Ho assistito, casualmente, alla distruzione di un archetipo.
Il ferroviere era anch’esso figura archetipa: era colui al quale ci s’affidava per giungere a destinazione.
Chiedendo lumi sulla soppressione di un treno, dovetti assistere ad una scena che mi fece stringere il cuore:
«Un tempo – raccontava il capostazione – per sopprimere un treno ci dovevano essere validissime ed insuperabili motivazioni. Oggi, basta che manchi una persona in più nell’organico e sopprimono. Guardi – continuava – fra due anni andrò in pensione e non vedo l’ora: questo non è più lavorare, questo è diventato un inferno, oppure una barzelletta». Ciò che narrava, non era la débacle delle Ferrovie Italiane, era la frantumazione – che percepiva soffrendo – della sua dignità di lavoratore: era il suo archetipo che andava in pezzi.
L’archetipo del funzionario onesto e capace – il quale tenterà magari di riattare l’esistente, cercando le soluzioni meno onerose – quello dell’insegnate che cercherà di forgiare spiriti liberi, critici e responsabili, e quello del ferroviere che avrà come primo obiettivo far in modo che i viaggiatori trovino i treni ad attenderli, sono vere e proprie iatture per il “mercatismo”. Poiché non riconoscono il vuoto, inesistente, falso modello del banchiere contemporaneo, espropriato anch’esso del suo archetipo – ossia del banchiere che non fornisce più denaro per catalizzare la creazione di beni, bensì s’adopera solamente ad inventare truffe destinate ad incrementare una massa monetaria fittizia e truffaldina – come il deus ex machina al quale tutto deve sottostare.
Gli archetipi originari, entrano in collisione con queste “raffigurazioni” imposte dal circuito mediatico, ed assorbite – purtroppo, la popolazione non ha scampo! – a largo spettro: vengono, inesorabilmente, distrutti.
In questo scenario, una manciata di “studiosi” cerca almeno di dipingere l’esistente – non può avere, oggi, i mezzi per soluzioni salvifiche! Solo qualche accenno! – e si trova esposta alla critica di critici che hanno smarrito, a loro volta, “l’archetipo” del critico. Altro che “quoto” e “non quoto”: provare per credere.
[1] Lo scorso Ottobre, ai primi allarmi per la crisi economica, un alto dirigente della Skoda (l’una vale l’altra…) dichiarò che bisognava “seriamente iniziare a pensare a ridurre la vita media di un’autovettura a sette anni”.
[2] Non voglio, qui, mostrare il legame fra l’articolo ed il film. Chi l’ha visto capirà, chi non l’ha visto, riceverà un suggerimento per guardarlo.