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La fondina fumante

Mentre s’inizia ad udire un tintinnio di sciabole che sbraitano in coro, che anelano ad una nuova partenza per l’Oriente, ci tornano alla mente ricordi ai quali preferiremmo non accompagnarci più, poiché il loro rinverdire porta le notti a stemperare nell’alba, insonne.

Non abbiamo mai creduto ad una guerra nei confronti dell’Iran, e lo ribadiamo con forza: c’è sempre, però, la nostalgia delle sciabole riposte senza lavarne il sangue, quella dei frustini usati più per spregiare l’indigeno che per sollecitare il cammello. E, questo, ci fa paura: come ha cercato di ricordarci Gheddafi, apponendo al petto – a mo’ di medaglia – la fotografia di Omar al Mukhtar in catene italiane.

 

Non siamo così ingenui da credere che basti un nero dell’Illinois, assiso sullo scranno di Lincoln, per garantire quei futuri di pace ai quali i più anelano, poiché sappiamo che – nei loro antri ammantati di bandiere patriottiche e di modellini di mezzi di morte – i Samuel Huntington ed i Michael Ledeen continuano ad agitare i loro sonni della ragione, i loro scomposti aneliti di potenza. Insensibili alla misera vita che conducono oramai milioni d’americani – quel proletariato mai ammesso nella patria del liberismo – scacciano come una fastidiosa mosca l’evidenza che le grandi holding automobilistiche sono diventate soltanto dei fondi-pensione, e che la gloriosa IBM si chiama Lenovo, ed è cinese.

Se fossero solo questi poveri vecchi, queste cariatidi del tempo che fu a mestare nel torbido della diplomazia, forse potremmo dormire sonni tranquilli, e invece così non è.

Pronti a raccogliere l’eredità di Leo Strauss, ci sono giovani virgulti che anelano a seguirne le orme, senza comprendere che quel tempo è passato: per questa ragione, sono ancor più pericolosi dei loro mentori, poiché  risultano mediocri epigoni, senza quel minimo di saggezza politica atta a stemperare una marcescente morale.

 

Abbiamo letto, con costernazione, che Benjamin Netanyahu ha espresso la sua ennesima proposta per la soluzione del problema palestinese: il riconoscimento – da parte palestinese – dello stato ebraico come “patria degli ebrei” da un lato, e la “generosa” concessione di uno stato palestinese completamente smilitarizzato dall’altra. Come a dire: la completa legalizzazione internazionale dell’ultimo stato teocratico del Pianeta e quella, parallela, dei Bantustan che ne adornano la corolla.

Ci domandiamo quale fondamenta, che non sia una sabbia mobile, possa sostenere un simile pensiero politico, se non la constatazione – evidente – che sarà il prodromo di nuovo sangue e d’altri fosforo e termite sparsi a pioggia.

 

Per tutte queste ragioni, ci sembra opportuno sottoporre all’attenzione dei lettori una notizia che non ha avuto l’attenzione che meritava, poiché “scomoda” e terribile. Siccome è anch’essa il frutto di due universi simbiotici – guerra e liberismo economico – non ci sembra affatto azzardato associarla a quanto sta avvenendo di questi tempi, dall’Afghanistan alla Palestina, poiché gli eventi traggono origine da cause e, se le cause primigenie sono fetori inammissibili, ciò che ne consegue deve essere negato.

 

Ci riferiamo al traffico d’organi destinati ai trapianti che si svolse in Albania, subito dopo la fine della guerra del Kosovo: come si potrà notare, non abbiamo ritenuto necessario agghindare con un “presunto” la nostra locuzione, poiché riteniamo di possedere – se non proprio la “pistola fumante” – almeno una “corposa” fondina fumante.

I fatti traggono origine da due paginette, appena una pennellata che Carla Del Ponte – ex giudice del Tribunale dell’Aia, oggi ambasciatrice elvetica in Argentina (fino al prossimo anno) – ha ritenuto di dover inserire nel suo libro “La caccia”, un bestseller internazionale tradotto in più lingue.

La Del Ponte tratteggia lo scenario, gli attori del traffico che si svolse non lontano dalla frontiera di Morini, presso Kukes, ai confini con il Kosovo: segnala d’avere fonti attendibili, ma non le cita. In ogni modo, il governo elvetico le ha intimato di tacere sulla vicenda.

 

Oggetto del traffico furono prigionieri serbi catturati durante i combattimenti, ma anche Rom ed albanesi stessi, contrari alla politica sanguinaria dell’UCK del “presidente” (e, ancora, ci chiediamo se Gheddafi possa essere appellato in quel modo!) Hasim Tachi, un prodotto di reazione ottenuto saldando il nazionalismo albanese con l’odio atavico per i serbi, più una generosa dose di denaro ed una spruzzata d’avvertimenti mafiosi. Il “chimico” che operò si tanta alchimia si chiamava Nicholas Burns, e fu l’inviato di Clinton e della Albright presso i clan albanesi dell’interno: la più importante “pedina” statunitense dell’epoca nella regione.

 

A questo punto, verrebbe la voglia di capire a quale gioco giochi la Del Ponte, e lanciarsi così in una ragnatela di dietrologie che si perderebbero, inevitabilmente, nelle aride pietraie dei Balcani, finendo per farci perdere il sentiero della ragione, stemperato e diluito – fino a scomparire del tutto – nelle fredde acque di qualche fiume carsico.

Le ragioni potrebbero essere molte: la più semplice, è che la Del Ponte potrebbe aver semplicemente raccontato quel che sapeva. Oppure, sapendo che altri sapevano, ha preferito “mettersi al vento” piuttosto che subire, in seguito, l’ennesimo attacco alla sua persona. Ricordiamo che il cadavere di Slobodan Milošević, all’Aia, ancora incombe.

Oppure, un semplice “pizzino”, recapitato da qualche cancelleria europea – al quale ha obbedito – per mettere qualche bastone fra le ruote alla gran voglia albanese di giungere ad una più “generosa” revisione della normativa sui visti d’ingresso nell’UE. Che, di fatto, è stata recentemente negata.

Come si potrà notare, ogni qual volta si parla di Balcani, la verità è sfuggente proprio come le acque – delle quali quella terra è ricchissima – che, però, si celano alla vista dell’uomo per chilometri, per poi ricomparire – scomposte e ricomposte da misteriosi incontri sotterranei – in luoghi apparentemente senza nesso né rapporto con quelle originate in altri monti o gole, molto lontano. Ed è questo il senso di quel che andremo a raccontare.

 

Sostanzialmente, la Del Ponte dice poco: racconta che, subito dopo la fine delle ostilità – nel 1999 – circa 300 persone di varie nazionalità furono inviate in una misteriosa “casa gialla”, nella quale furono dapprima espiantati loro i reni – per avviarli da subito al traffico – per poi ucciderli in un secondo momento, al fine di prelevare gli altri organi.

Anche RAINews24 s’è interessata alla vicenda, producendo un breve filmato – Il mistero della casa di Burrel [1]– il quale, però, non fornisce molte certezze. Perché?

 

Poiché si cerca la “pistola fumante” e, soprattutto nei Balcani, o non se ne trovano, oppure se ne trovano fin troppe: il traffico d’organi, poi, è così abilmente gestito (poiché molto redditizio per le organizzazioni criminali che lo attuano) da non lasciare tracce giudiziarie. Le quali, sono le uniche sulle quali possono poggiare delle sentenze: certamente, un maggior “vigore” nelle indagini – soprattutto dopo le ammissioni del Ministro dell’Interno Maroni, mai smentite[2] – sarebbe auspicabile.

Riflettiamo che un rene, pagato 5.000 dollari (al massimo) al cosiddetto “donatore”, può generare profitti per circa 100.000[3], in un rapporto di 1:20: crediamo bene che non si lascino facilmente “beccare”! Un corpo umano, nel mercato liberista del “tutto si vende e si compra”, è stimato – di solo valore “nominale” – per cifre intorno al mezzo milione di dollari, rimanendo molto, ma molto prudenti nelle stime. Perciò, potremmo concludere che quei 300 disgraziati si siano trasformati in un bel “gruzzolo” di una quindicina di milioni dollari. Se è tutto vero, ovviamente.

 

Naturalmente, nel perfetto copione balcanico, i serbi accusano e gli albanesi smentiscono ma qualche falla, qui e là, inizia a comparire: qualche volta, anche i fiumi carsici riescono a restituire qualcosa.

La prima crepa è di poco conto, poiché non fornisce riscontri: due medici albanesi, Lutvi Dervisci, Tuna Pervorfraj e il direttore della clinica privata Medicus, dove i due lavoravano e dove avevano luogo i trapianti, sono stati arrestati nell’Autunno del 2008[4]. I due nomi dicono poco o nulla, la clinica pure: qualcuno potrà affermare che si tratta della “pistola fumante”, altri che l’ennesima “bufala” pascoli nel gran prato dell’informazione.

Anche la notizia che il vice ministro della Sanità kosovara – Ilir Recaj – è stato sospeso, pressappoco negli stessi giorni, dalle sue funzioni non è ancora una “pistola fumante”, però indica che non siamo più solo al “fumo”, qui s’inizia ad avvertire profumo d’arrosto.

 

Lo stesso quotidiano on-line ticinese poco sotto, però, narra qualcosa che – per chi ha pubblicato il primo libro in Italia sull’argomento[5], e che non ha mai smesso d’interessarsi al fenomeno, al punto che sta pensando ad una revisione ampliata del testo originario da mettere on-line – fa drizzare le orecchie, come un pastore tedesco che “punta” un pericolo.

Il nome riportato – la fonte primaria e il giornale bosniaco Oslobodjenje – è quello di Jusuf Erçin Somnez, destinatario di un mandato di cattura internazionale, che – comprensibilmente – ai più non dirà nulla. E, invece, questo nome – se non proprio una “pistola fumante” – è una “fondina fumante”, ma di quelle ancora calde. Perché?

 

Poiché proprio l’anno precedente la guerra in Kosovo, il dott. Somnez (insieme al collega Shapira) fu oggetto dapprima di una ferma protesta diplomatica da parte del Ministro dell’Interno rumeno, poiché l’organizzazione messa in piedi dai due solerti discendenti d’Ippocrate si dedicava, corpo e beni, alla ricerca di “donatori” nelle povere campagne della Romania, dopo aver “rastrellato” a lungo la Moldavia. Ma la pistola non fuma ancora.

Se possiamo affermare che “fumò”, dobbiamo essere riconoscenti ad un giornalista turco – un vero giornalista, non uno scribacchino d’apparato – che risponde al nome di Mehmet Ali Onel, il quale lavorava per il programma televisivo Arena, messo in onda dalla TV pubblica turca.

 

Nel giugno del 1998[6], Onel si finse un poveraccio che desiderava vendere un rene e contattò Somnez: pattuì il prezzo e la data dell’espianto. Le telecamere, nascoste, registrarono corridoi con pazienti – di parecchie nazionalità – nell’attesa d’intervento: Onel riuscì anche a parlare con l’uomo che avrebbe ricevuto il suo rene, un israeliano.

Svelata la sua vera identità, Onel s’attendeva qualche reazione scomposta che, invece, non ci fu: Somnez lo ignorò completamente e telefonò subito al suo legale.

Ovviamente, una simile notizia – riportata dal corrispondente turco del nostro “Striscia la notizia” – non poteva scorrere come acqua sulla pietra: Somnez e Shapira furono cacciati dalla sanità pubblica turca.

 

La vicenda di Somnez raccontata nel 1998 da Onel, narrava anche – senza sapere nulla, all’epoca, della futura vicenda kosovara! – l’epilogo: Somnez riprese l’attività criminale presso una rete di cliniche private gestite da un potente uomo d’affari turco, in odore (a dir poco) di mafia, tale Azmi Ofluoglu. Teniamo a mente che siamo nel 1998.

Anni dopo, guarda a caso, la procura kosovara scopre che l’anno seguente (1999) Somnez era probabilmente in Kosovo (se hanno emesso un mandato di cattura…) oppure nella vicina Bosnia o nel Sangiaccato, tutte terre storicamente legate alla Turchia, ossia al vecchio Impero Ottomano.

 

A questo punto, non possiamo affermare d’aver mostrato una “pistola fumante” – d’altro canto, in questi ultimi anni ce ne hanno mostrate più d’una, e tutte fasulle – ma che, almeno, una “fondina fumante” c’è, ed è ancora calda.

Sostanzialmente – in pieno stile liberista – il buon “procacciatore d’affari” si recava nei luoghi dove sperava, ragionevolmente, che il “mercato” scendesse di prezzo per abbondanza di prodotto: se c’è una guerra, piatto ricco…

Altri hanno indicato che squadre di medici statunitensi “rastrellavano” l’Iraq dietro le truppe, ma non abbiamo indizi così lampanti come nel caso del dott. Somnez. Quella turca, signori miei, io la chiamo una prova: qualcosa in più dello scoop, e nessuno – finora – era riuscito a collegare nomi, date, luoghi ed eventi.

Qui termina il lavoro del giornalista – scusate se è poco – e dovrebbe iniziare quello del magistrato, ovvero di “qualcuno” che possa chiedere un arresto internazionale, che possa incriminare, processare, giudicare. E, invece, così non è. Perché?

 

Poiché il traffico d’organi è solo la più bassa e fetida espressione del capitalismo globalizzato, del “compro e vendo tutto, dove e come mi pare”, che passa sopra alle nostre vite ed ai nostri sentimenti come un bulldozer, con il solo scopo di riempire di soldi l’autocarro che segue.

Così è per il petrolio iraniano e per le vicende politiche interne a quel Paese, per quello venezuelano e per gli anatemi a Chavez, per il gas nel mare di fronte a Gaza che è costato la vita a tanti, inermi bambini palestinesi. E non finisce qui, perché Monsanto & Co. applicano le stesse strategie per i generi alimentari, l’industria farmaceutica pure: per tutto, vale solo più la legge di “quanto vali”. L’estrema frontiera, sono i nostri corpi: quando saremo venduti a peso? Fanfaluche?

E allora perché, recentemente, Singapore ha liberalizzato sul suo territorio[7] (1 solo voto contrario al Parlamento!) la compravendita di organi per i trapianti? Perché la Cina ha specifici regolamenti per le esecuzioni, onde preservare la “merce”?

 

Quando Alberto Sordi, nel 1963, girò “Il Boom” per la regia di Vittorio de Sica, vidi il film nello splendore del vecchio bianco e nero di mamma TV: mi sembrò un film ridicolo…uno che giunge a vendersi un occhio per pagare i debiti…

Chiedetelo oggi ai contadini moldavi, rumeni ed ai prigionieri di guerra dell’UCK. Poi, tornate a guardare il film: vi sembrerà una fiaba perversa, oppure un profetico graffio nel tempo. In una caligine amara: il nostro tempo.

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[1]Fonte:http://www.rainews24.it/ran24/rainews24_2007/inchieste/01052008_traffico_organi/video/traffico_organi_1.wmv (è possibile salvarlo).

[2] Vedi: “Organi allo Sbando”, di Carlo Bertani http://carlobertani.blogspot.com/2009/01/organi-allo-sbando.html

[3] Testimonianza del dott. Michael Friedlaender, primario di nefrologia all'Hadassah University Hospital di Gerusalemme. Fonte: Marina Jimenéz, National Canadian Post, 2004.

[4] Fonte: Politika, quotidiano serbo, riportato da Ticino Libero, http://www.ticinolibero.ch/traffico-dorgani-in-kosovo-cadono-le-prime-teste/426/15/11/2008/

[5] Carlo Bertani – Ladri di Organi – Malatempora – Roma – 2005.

[6] Fonte: Marina Jimenéz, op. cit.

[7] Fonte: Adnkronos, http://www.adnkronos.com/IGN/Esteri/?id=3.0.3144530127

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