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Sarebbe facile, ed altrettanto scorretto, gettar fango sulla politica USA nell’occasione di un disastro come quello che ha colpito la Louisiana: qui non si tratta di trafiggere chi già sta a terra, quanto di comprendere perché un’importantissima città del paese più potente della Terra sia ridotta – da un uragano – alla stregua di una landa desolata del Bangladesh che implora aiuto.
“In attesa di un vero leader”, ha titolato il New York Time – riferendosi al Presidente, che ha sorvolato a bassa quota le zone alluvionate mentre si recava dal Texas a Washington – indicando in Bush il vero nocciolo del problema, la madre di tutti i guai d’America.
E’ Bush il grande guaio americano? In parte sì, perché un Presidente che non ha saputo trovare altre parole che “tolleranza zero” nei confronti dei saccheggiatori di negozi – mentre la gente moriva per mancanza d’acqua e di cibo, oppure avvelenata dalle acque inquinate – dimostrando così di non saper nemmeno da dove s’inizia a governare una nazione.
Le vicende conseguenti all’11 settembre hanno consegnato al rampollo Bush una parte da recitare: quella del cow boy “sempre in piedi”, della frontiera americana sempre sorridente e pronta al massimo alla smorfia di dolore mentre supera prove indicibili.
Invece, due argini cedono e l’America ci mostra un volto umano: quello della sofferenza, della paura, della disperazione per un futuro che è stato spazzato via. Addirittura, la grande America è costretta ad accettare gli aiuti internazionali, una fatto mai accaduto.
La parte non si addice, non rientra nel copione mediatico cucito addosso a George W. Bush: la sincera compassione, il soccorso amorevole, l’empatia potrebbero incrinare l’immagine pubblica dell’uomo più potente del mondo. L’emergere di sentimenti più dolci – femminili – condurrebbe alla confusione l’elettorato che lo segue, metaforicamente, mentre sale sui picchi delle Montagne Rocciose ed indica la nuova frontiera ad ovest: la California, il Giappone, l’Iraq, Marte. Non importa di quale frontiera si tratta: una frontiera da raggiungere e superare ti concede la grazia (o la dannazione) di non vivere l’oggi, di dimenticare la consapevolezza dell’attimo che stai vivendo, perché ogni istante che viviamo può essere sereno o terribile, ma entrambe le facce della medaglia vanno accettate.
La negazione della sofferenza è il cult dell’America del dopo Reagan: quell’America che si è scrollata di dosso i dubbi della Grande Depressione e del Vietnam, che riconosce come vere soltanto le pagine in rosa. Think pink.
I pensionati sono rinchiusi in gabbie dorate che si chiamano Miami o Fort Lauderdale, laddove vivono una sospensione della vita nella continua rimozione della morte. La malattia va celata, rimossa, mascherata dietro al velo utilitaristico della privacy fino alla morte, da vivere con ampia profusione di lacrime ma da dimenticare subito, pena la depressione. Chi lavora per il minimo sindacale – circa 6,5 dollari l’ora – viene cullato dall’illusione che i sacrifici degli americani servano per rendere migliore il pianeta, per esportare quel Think Pink ovunque.
Poi scoppia il bubbone: scoppia sempre, e non puoi prendertela con un nemico quando sono il vento e gli elementi a sopraffarti. Non esistono uragani in caffettano, né argini che t’assalgono urlando “Allah al akbar!”.
Ecco l’inadeguatezza di George Walker Bush, la sua incapacità a gestire la mancanza di un nemico in carne ed ossa; ma nella tragedia – tutta americana – che ha colpito la Louisiana, il Presidente non è certo il prim’attore, semmai è una comparsa di seconda fila.
Il New York Time centra un titolo ad effetto, ma svia un’intera nazione calando la scure sul Presidente: forse non può fare altro – in quell’ordinamento costituzionale – che prendersela con il comandante in capo, ma qui è proprio il concetto di comandante in capo – in politica – ad andare in frantumi.
Fermiamoci un istante ad analizzare i dati della tragedia, anche se non conosciamo ancora completamente i dettagli tecnici, esaminiamo con logica ciò che ci viene raccontato.
L’uragano Katrina è passato come tanti altri: ha sconquassato strade e ponti, tetti e navi, ma all’indomani del suo passaggio si disse che il peggio era passato: bastava tornare – con pazienza, martello e chiodi – e rimettere in sesto la baracca. Tutto nello spirito americano della frontiera, tutto secondo copione.
Invece due argini di terra (verrebbe da dire di m…) cedono ed il terzo aeroporto degli Stati Uniti scompare sotto sei metri d’acqua: se la cava meglio il quartiere francese – con solo l’acqua alle ginocchia – ma i francesi pre-napoleonici sapevano forse costruire con più saggezza degli ingegneri usciti dalla Cornell.
Cedono gli argini: una fatalità, una cosa normale, come se gli argini a protezione della capitale della Louisiana dovessero reggere più per grazia divina che per volontà della nazione, ma non basta ancora.
Scopriamo che New Orleans – col trascorrere del tempo – si sta inabissando: piano piano, qualche millimetro l’anno, silenziosamente ma costantemente. Nulla è immutabile: gutta cavat lapidem.
Scopriamo, parallelamente, che la tragedia ha ridotto al lumicino le capacità estrattive di petrolio e gas nelle acque prospicienti la città: il petrolio schizza alle stelle. Anche se le ragioni sono altre (Cina ed India, esaurimento dei combustibili fossili, ecc.) si dà la colpa a Katrina anche della débacle petrolifera e dell’aumento dei prezzi.
Spicchiamo il volo da un delta sterminato – quello del Mississippi – ad uno enormemente più modesto: quello del Po.
Forse non tutti ricordano che Enrico Mattei iniziò ad estrarre il metano proprio nella valle padana; ebbene, quel metano è scomparso? I giacimenti sotto la valle padana sono stati sfruttati per decenni, però si smise d’estrarre gas ben prima dell’esaurimento delle fonti. La ragione?
I geologi scoprirono che la valle padana si stava abbassando: potremmo affermare – molto empiricamente – che privandola dei “cuscini” di gas metano tendeva naturalmente ad affossarsi. Ciò avrebbe causato alluvioni disastrose, ed ancora oggi s’eseguono accurati controlli affinché nessuno estragga metano (anche di frodo), soprattutto nella zona del delta.
Anche in Italia abbiamo vissuto alluvioni disastrose: la rotta di Occhiobello del 1951 inferse un colpo micidiale alle popolazioni del delta, e da allora si è corsi ai ripari. Esiste il Magistrato del Po, un’istituzione che ha poteri e competenze per l’intero corso del fiume, che scorre in ben quattro regioni.
La cura del Po (nonostante scontino notevoli ritardi le opere per renderlo navigabile, come auspicato dall’Unione Europea) ci ha preservati per mezzo secolo da alluvioni disastrose per la vita delle popolazioni e per l’economia.
Altre nazioni curano sistemi fluviali e di navigazione interna ben superiori a quello italiano: Germania e Francia hanno una rete fluviale di circa 7.500 Km ciascuna, la Russia di ben 105.000, eppure non succedono tragedie come in Louisiana. La recente piena del Danubio ha fatto più paura che danni, ed anche le vittime sono state pochissime.
Si potrà obiettare che in Europa non arrivano uragani, il che è verissimo. Domandiamoci: se si sa di vivere in aree soggette a manifestazioni climatiche così violente, si costruiscono a protezione di una città come New Orleans degli argini di terra?!?
Difatti, il Genio Militare USA – chiamato d’urgenza per tamponare le falle – ha dichiarato (in buon “politichese” locale) “che non avevano costruito loro gli argini”. Insomma: noi cerchiamo di metterci una pezza, ma chi ebbe quella bella pensata fu proprio uno str…
La cura dei bacini fluviali è un compito assai arduo; se ne rese conto addirittura – in tempi lontanissimi – il famoso califfo Harun el Rashid (774-809 d C.), il sovrano abbasside di Baghdad, che non intervenne in nessun aspetto economico del suo impero, ma avocò allo stato un solo compito strategico (oltre, ovviamente, alle guerre): la cura e la manutenzione di fiumi e canali.
Forse gli olandesi affidano l’esistenza del loro Paese a degli argini di terra sorvegliati da uno sceriffo di Contea? No, ed hanno recentemente investito centinaia di milioni euro per modernizzare le chiuse del porto fluviale di Anversa, per rendere il bacino più sicuro ed efficiente. Fra l’altro, il porto di Anversa è per metà belga e per l’altra metà olandese: quando s’interviene sul bacino, si tratta di compiere un investimento che coinvolge due distinte nazioni che – seppur affratellate nell’Unione Europea – sono Paesi completamente indipendenti l’uno dall’altro.
Se il metodo europeo di curare fiumi e bacini funziona, ciò è dovuto ad autorità che hanno poteri reali in materia, e che non possono essere bloccate dai veti degli amministratori locali. Se il Magistrato del Po indica la necessità di un’opera idraulica, se vengono stanziati i fondi e – per veti incrociati o per inerzia burocratica – l’opera non viene realizzata, chi ha fermato i lavori si assumerà l’eventuale responsabilità penale dei danni.
Possiamo quindi essere modestamente orgogliosi del nostro sistema, così come i tedeschi hanno imbrigliato il Danubio ed i russi l’ancor più maestoso Volga. Cosa non ha funzionato negli USA?
Purtroppo – nonostante la libertaria mentalità degli estensori – gli Stati Uniti hanno una Costituzione che gronda individualismo da ogni articolo: si può comprenderlo, giacché la carta nacque dopo che si erano liberati dal giogo imperiale (e centralizzante) della Gran Bretagna.
Tutto l’impianto costituzionale statunitense è un inno alla libertà dell’uomo: concetto stupendo ed incontestabile, salvo quando si deve limitare la libertà individuale per il supremo bene collettivo.
Ecco allora che, dal ventre profondo degli USA, prendono forma le più disparate velleità isolazioniste, separatiste, individualiste. L’estrazione degli idrocarburi può causare l’abbassamento del suolo? E chi può intimare al libero proprietario di un pozzo di petrolio di non estrarre il prezioso liquido?
Le acque del Mississippi portano a valle milioni di tonnellate di limo finissimo, che finiscono per rialzare il letto del fiume? Allora si scava soltanto il canale navigabile, ma non ci si preoccupa se il dislivello fra il letto del fiume e la città aumenta: la navigazione è impresa, lavoro, profitto; la protezione di una città è un’esigenza collettiva, e collettivo è un aggettivo poco gradito negli USA.
La gestione di un fiume come il Mississippi-Missouri è una faccenda estremamente complessa, che richiede competenze in molte discipline e poteri centralizzati che possano agire rapidamente e con perizia su un territorio immenso.
Come conciliare questa necessità collettiva con le mille contee, i mille amministratori, sindaci, governatori, legati ad un partito o ad una lobby, sapendo che ogni intervento dall’alto – che negli USA viene sempre chiamato “federale” quasi con spregio – subirà inevitabilmente l’ostracismo dei più nel nome del sacro individualismo, il principio che è alla base del pensiero americano?
Prima che anticomunisti, gli americani sono visceralmente anticollettivisti: vedono in ogni forma di collettivizzazione l’usurpazione dei loro diritti individuali. Chi ha viaggiato negli USA, saprà che quando si asfalta una strada spesso non c’è solo l’operaio che arresta il traffico, bensì anche chi spiega agli automobilisti la ragione dei lavori, la loro improrogabilità, e si scusa per l’intoppo.
La ragione di tanta gentilezza? Se uno solo degli automobilisti chiede di passare, appellandosi alla carta costituzionale, nessuno potrà fermarlo e nessun giudice potrà dargli torto, perché il diritto a spostarsi liberamente è considerato supremo. D’altro canto, sappiamo che ogni tentativo di limitare la diffusione delle armi da fuoco cozza inevitabilmente contro una costituzione del ‘700, scritta quando portare una spada al fianco era cosa normale: Colt, Smith&Wesson, Winchester e Remington lo sanno benissimo, ed i loro avvocati hanno la strada spianata nei tribunali proprio dalla suprema carta.
In definitiva, per salvare New Orleans serviva un diverso approccio: collaborazione completa e senza remore fra Washington, Stati e Contee; proprio ciò che negli USA è una chimera, peggio che andarsene dall’Iraq.
La nemesi appare in tutta la sua tragica evidenza se riflettiamo che – mentre New Orleans andava a mollo – la Guardia Nazionale della Louisiana (che ha anche compiti di protezione civile) pattugliava le strade irachene: non è del tutto chiaro se (nell’ordinamento USA) la Guardia Nazionale possa essere schierata fuori dai confini nazionali, ma ormai per l’Iraq Bush sta raschiando oltre il fondo del barile.
Da ultimo, fanno rabbrividire gli avvertimenti ai saccheggiatori, la minaccia d’usare le armi da fuoco contro chi s’impossessa di beni che – quando le acque si ritireranno, ovvero fra qualche mese – saranno con ogni probabilità buttati al macero. Anzi, sarà costoso e problematico trovare aree per stivare l’intero, putrescente contenuto di una città, di una metropoli andata in malora.
Anche qui possiamo notare che s’antepone un concetto ad un’esigenza umana: ovvero, prima si guarda al titolo giuridico del possesso, poi alle necessità della popolazione. Non sia mai che si ceda – anche nel bel mezzo di un uragano – e si consideri prioritaria la fruibilità di un bene e non il titolo di chi lo possiede.
Cosicché, nell’atmosfera di tregenda che ricorda più l’Indonesia che gli USA, la gente cerca fra le macerie allagate quel poco di cibo ed acqua non inquinati che può ancora trovare per sfamarsi, e rischia così di prendersi una fucilata da un cecchino: probabilmente, lo stesso cecchino che sparava – mesi prima – sugli abitanti di Falluja.
Tutto può essere preso solo se il proprietario è d’accordo, tuona dal pulpito il reverendo Bush: ecco, nuovamente, il concetto di spocchiosa carità, di solidarietà umiliante che il Presidente canta in mille salse da quando si è seduto nello studio ovale. Ciò che deve essere attentamente evitato è che la necessità sia considerata alla stregua di un diritto, che la fame autorizzi a sfamarsi dove si trova cibo. Il principio giuridico e morale anzitutto: lo stesso principio d’individualismo sfrenato che ha condotto – a ben vedere – alla tragedia.
Après de nous le déluge? Non, le déluge est déjà arrivé.