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La punta dell'iceberg

...ovvero, la querelle del gas ucraino

 

Lo scoppio improvviso della contesa per il gas fra Russia ed Ucraina ha sorpreso – fra i politici e gli analisti internazionali – solo chi faceva finta di non sapere: sono anni, oramai, che le tensioni nelle aree orientali dell’Europa s’accumulano, e la vicenda del gas russo potrebbe diventare solo un insignificante casus belli di una contesa dai confini più ampi.

Anzitutto gli attori della vicenda, che non sono soltanto Mosca e Kiev, bensì almeno quattro: La Russia, l’Ucraina, la Bielorussia (Belarus) e l’enclave russa di Kaliningrad; ad essi possiamo aggiungere – sul piano internazionale – L’Unione Europea e gli Stati Uniti. E le sorprese non terminano qui, giacché entrano a pieno titolo nella vicenda anche i Balcani ed il Terzo Reich tedesco.

Iniziamo dall’attore protagonista, ovvero la Russia, erede della potente Unione Sovietica. Le attenzioni degli analisti internazionali hanno quasi dimenticato – negli ultimi anni – lo sterminato continente della grande Russia, ben 10 fusi orari in una sola nazione.

All’indomani del crollo dell’URSS, nessuno cercò di capire cos’era successo; semplicemente, si raccontò che era “crollato il comunismo”, dimenticando due aspetti essenziali: che quello di Mosca comunismo non era – bensì capitalismo di stato – e che nulla crolla da solo, senza che altri ci mettano lo zampino.

Il crollo dell’economia sovietica avvenne principalmente per reggere la corsa agli armamenti con gli USA: a metà degli anni ’80, gli USA investivano in armamenti il 6,5% del PIL, mentre l’URSS destinava ai cannoni il 16,5%. In valori assoluti, però, quel 6,5% voluto da Reagan per abbattere “l’impero del male” era superiore ai corrispondenti stanziamenti russi, mentre quel 16,5% del PIL, per l’URSS, era diventata un’inarrestabile corsa all’indebitamento ed all’inflazione che – in un paese che non ammetteva deprezzamenti della moneta circolante – si tramutava immediatamente in una carenza di beni.

Le condizioni di vita dei sovietici peggiorarono in quegli anni, e la colpa della situazione fu addossata – a torto od a ragione – sulle spalle di Mikhail Gorbaciov, alla sua perestroijka ed alla glasnost, la nuova politica che riprendeva, in qualche modo, le istanze di rinnovamento di Kruscev degli anni ’60.

Indebolito dalla sfiducia dei militari e del potente apparato di polizia (soprattutto il KGB), Gorbaciov fu messo alle strette: o ritornare alle vecchie abitudini di “nonno Breznev”, oppure lasciare campo libero.

Gorbaciov – e questa rimarrà per sempre una sua grave responsabilità storica – tentennò e non seppe scegliere: all’indomani del grottesco putsch dell’agosto del 1991, un populista Eltsin gli presentò il conto e l’ultimo zar dell’URSS lasciò Mosca per andare in esilio nella dacia in campagna in treno, senza scorta, come l’ultimo dei cittadini sovietici.

La statura politica di Eltsin, però, lasciava alquanto a desiderare: pur avendo percorso tutti gli scalini dell’apparato di regime, rimaneva un modesto apparatcik, un burocrate di regime privo delle capacità politiche necessarie per governare il difficile momento.

In quegli anni il prestigio internazionale della Russia giunse ai minimi: una nazione ricchissima d’energia – per qualche tempo – non ebbe kerosene per far volare la compagnia di bandiera, l’Aeroflot, mentre corruzione ed abbandono spadroneggiavano nell’immenso paese, che rischiava sempre di più una deriva balcanica ed uno smembramento della federazione.

Nel 1999 giunse al culmine la tensione nei Balcani, e la guerra del Kossovo fu – per via indiretta – una guerra contro la Russia, visto che la Serbia – pur ammettendo le “derive” di Tito – era l’alleato storico di Mosca, che in quella breve guerra perse un altro po’ del suo prestigio internazionale.

Nel 1999 qualcuno, a Mosca, decise che la misura era colma e che non si poteva più perdere tempo: la prima guerra cecena s’era rivelata una sconfitta, e serviva un vero statista al Cremlino, non un “ammiratore” della vodka.

Il Delfino di Eltsin pareva essere Viktor Cernomirdyn – potente patron di Gazprom, il colosso del gas russo – che invece fu spedito come mediatore nei Balcani (probabilmente per “bruciarlo” politicamente), e così fu: allo scadere del mandato di Eltsin (2000) spuntò come un fungo lo sconosciuto Vladimir Putin, ex colonnello del KGB e, per anni, addetto d’ambasciata nella ex RDT.

La carriera politica di Putin non nacque dalla sua buona stella, ma dal potente apparato ex sovietico che – pur presentando all’estero la facciata della nuova Russia – continuava a reggere le fila del potere nel paese. Un piccolo particolare: nella nuova Russia, per anni gli ufficiali hanno continuato a far giurare i cadetti con la formula di rito, sicché i giovani ufficiali giuravano fedeltà a Sovietskij Soyuz.

Stupirà sapere che uno degli sponsor di Putin fu lo stesso Gorbaciov, che lo definì “la nostra ultima speranza”: come ripagò, il giovane judoka, la fiducia concessagli?

Anzitutto fece una “robusta” cura alla sua immagine, volando per il paese su un cacciabombardiere militare SU-34 – che si dice pilotasse personalmente – al posto del consueto Iliuscyn, per confermare le attese di un “uomo forte” al Cremlino: da sempre, dal feudalesimo al neo-capitalismo, l’uomo che siede al Cremlino è uno zar, ed un condottiero deve instillare un’idea di forza e di coraggio.

Politicamente, gli spazi internazionali della Russia erano oramai ridotti al lumicino, ma il buon Vladimir non si perse d’animo e tornò a bussare alla porta dei vecchi alleati: Libia, Vietnam, Corea, ma anche in Cina ed in India, per vendere l’unico bene tecnologico che l’URSS aveva lasciato in eredità alla Russia, ovvero le armi.

Bisogna ricordare che il crollo del sistema sovietico non intaccò profondamente l’apparato militare industriale della Russia, l’unica nazione in grado di produrre tecnologia aerospaziale a livello degli USA.

Grazie ad alcuni indovinati modelli (la serie dei caccia SU-27, il semovente antiaereo Tunguska, ecc) ripresero le forniture d’armi, e Putin non esitò a dirottare le poche risorse disponibili per mantenere ad alto livello i centri di ricerca. Non venivano più costruite larghe serie di velivoli, ma pochi prototipi per non scadere troppo rispetto al livello USA.

“Aiutati che il ciel t’aiuta”, narra un noto proverbio, e dopo il 2000 il cielo iniziò proprio ad aiutare la disastrata Russia, giacché il prezzo del petrolio iniziò a volare, trascinandosi appresso anche gli altri combustibili fossili, ovvero gas e carbone.

Per la Russia, l’aumento dei prezzi dell’energia fu manna dal cielo: un paese che possiede il 15% del petrolio mondiale, il 40% del gas e circa l’80% del carbone non poteva attendersi nulla di meglio.

Grazie ai maggiori introiti dell’energia, nel 2003 Putin aumentò del 50% le spese per la ricerca in campo militare: i risultati furono il missile intercontinentale Topol-M, che ha vanificato qualsiasi “scudo stellare” americano, gli SS-26 Iskander venduti alla Siria, micidiali missili a medio raggio che sono difficilmente intercettabili ed i missili antinave Mosquit, con raggio d’azione di 200 Km, venduti all’Iran. Anche l’elettronica ha compiuto passi in avanti, e gli unici radar in grado di scovare gli aerei stealth americani (F-117, B1, B2) sono i russi S-300 ed S-400.

L’Iran fu il nuovo acquisto della rinnovata “scuderia” russa: oggi Mosca costruisce le centrali nucleari iraniane ed ha ristrutturato completamente le forze armate di Teheran, che è entrata nel “patto di Shangai”, un sodalizio fra Russia, Cina e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.

Oggi Mosca procede con incrementi del PIL pari al 7% annuo, grazie all’energia ed alle armi, mentre la lotta agli oligarchi dell’energia ha ricondotto sotto controllo statale il fiume di denaro che esce dai giacimenti siberiani. Anche la situazione finanziaria è abbastanza rosea: la Russia ha pressoché estinto l’enorme debito estero ricevuto in eredità dall’URSS, e nelle casse statali ci sono riserva in valuta estera per ben 170 miliardi di dollari, più altri 50 che sono immobilizzati in un “fondo di compensazione” per sopperire alle oscillazioni dei prezzi.

Questa è la situazione russa sotto l’aspetto economico: e gli aspetti strategici? Qui non sono tutte rose e fiori, anzi.

Il grande timore russo è l’accerchiamento: a ben vedere, la stessa paura dei sovietici e, ancor prima, degli zar. L’accerchiamento ad est non preoccupa molto, giacché gli USA possono appena resistere in Iraq, e per nuove avventure di guerra nel pianeta mancano soldi e uomini. Ad ovest, invece, la situazione è critica: dapprima gli USA finanziarono circa 300 ONG in Bielorussia, per cercare di piegare l’alleanza con Mosca di Lukaschenko – il padre-padrone del paese – ma non riuscirono nell’intento.

La seconda mossa – questa riuscita – è stata la rivoluzione “arancione” in Ucraina, che ha condotto al potere il filo-occidentale Yuschenko. La cosa meno gradita da pronunciare a Mosca è la parola “NATO”, e proprio il ventilato ingresso nella NATO dell’Ucraina (e, forse, nell’UE, ma questo è un obiettivo assai più lontano) ha fatto scattare l’allarme al Cremlino.

Mosca non vuole e non può permettersi che gli USA s’installino negli aeroporti ucraini, giacché ne risulterebbe compromessa la stabilità della regione: perché? Poiché l’indipendenza della Lituania dall’URSS e l’ingresso della Polonia e della stessa Lituania nell’UE hanno portato all’accerchiamento dell’enclave russa di Kaliningrad, un “pezzo” di Russia sul basso Baltico che non ha più confini con la madrepatria[1].

La questione è seria, tanto che – nel 2005 – lo stesso Putin (con Chirac e Schroeder al fianco) è intervenuto ai festeggiamenti per un importante anniversario della città di Kaliningrad (prima, quando era tedesca, si chiamava Koenisberg), la città dove nacque Immanuel Kant.

Durante i festeggiamenti, Putin ha chiarito che la Russia non accetterà mai nessuna “ridefinizione” dei confini o qualsiasi accordo che preveda maggiori difficoltà per le comunicazioni fra l’enclave e la madrepatria. C’è da capirlo: quel fazzoletto di terra sul Baltico consente a Mosca d’essere presente in un importante scacchiere, sia per gli aspetti militari, sia per quelli energetici.

E’ evidente che altri non sono dello stesso parere, a cominciare proprio dagli USA, che hanno messo a segno un colpo da maestro con l’insediamento di Yushenko in Ucraina.

E l’Ucraina? Il paese è estremamente povero e diviso: all’ovest, la regione di Leopoli (L’viv) è ucraina solo dal 1939 (ma a quel tempo era URSS), giacché la sua cessione ai sovietici fece parte dello sciagurato patto fra il ministro degli esteri di Hitler, von Ribbentrop, ed il suo corrispondente sovietico, Molotov, ai danni della Polonia.

Ad est, invece, verso Kharkov e Donets’k c’è una forte componente russofona, che ha mal digerito l’ascesa di Yushenko, giacché la deriva verso occidente viene vista come un salto nel buio per popolazioni che – pur essendo ucraine – guardano ancora a Mosca come punto di riferimento.

Noi occidentali incontriamo qualche difficoltà a comprendere l’intrico geopolitico che, poco oltre la frontiera triestina, giunge agli Urali: le popolazioni slave sono abituate a salutare mostrando il numero tre con le dita della mano destra, e questo gesto – di per sé soltanto simbolico – ha invece profonde implicazioni.

Il “tre” non rappresenta la Trinità, bensì la comune religione (ortodossa), la lingua (slava) ed il popolo (slavi): in altre parole, lo slavo avverte un senso d’appartenenza alla “nazione slava” sulla base di criteri che non considerano in alcun modo la ragione illuminista, un fenomeno che appartiene anche agli arabi. La stessa parola Jugo-slavia significa semplicemente “Slavi del sud”.

Questa premessa può chiarire meglio i complessi fenomeni culturali, razziali, economici e politici che agitano l’est europeo: molti ucraini – proprio in contrapposizione allo “slavismo” – entrarono a far parte delle truppe del Terzo Reich, ed un nutrito gruppo di ucraini con le mostrine tedesche fu preso prigioniero dagli americani, nel maggio del ’45, nei pressi di Venezia, dov’erano addetti all’artiglieria costiera. Quegli uomini s’arresero soltanto dopo aver ricevuto ampie assicurazioni che non sarebbero mai stati consegnati ai sovietici.

Scorrendo molto rapidamente le pagine della storia, si può capire come l’affermazione di Yuschenko – e la sua decisa apertura all’Europa ed alla NATO – sia un elemento di rottura, così come lo fu la completa “sovietizzazione” dell’Ucraina. “Terre di mezzo”, verrebbe da dire, e mai appellativo fu più indovinato: regioni che possono sopravvivere senza troppi scossoni a patto di fare del compromesso la ragion di stato.

Lo stesso Yushenko – ad appena un anno dalla sua elezione – ha perduto gran parte dei consensi nella popolazione, giacché la politica di contrapposizione alla Russia ha provocato una repentina contrazione dell’economia, mentre gli occidentali – alle prese con l’allargamento dell’Unione e con l’Iraq – non sono stati certo prodighi d’aiuti. Per alcuni aspetti, la vicenda populista di Yushenko assomiglia a quella di Berlusconi: entrambi saliti al potere grazie al denaro ed all’appoggio (profumatamente pagato) dei media, e presto rivelatisi un bluff. Tanti proclami: miglioramenti per la parte più ricca della popolazione e peggioramenti per tutti gli altri.

Il primo gennaio 2006 scatta la trappola di Putin che – come in un piatto di poker – decide di vedere le carte dell’avversario. Per ora siamo solo alle schermaglie, giacché l’Ucraina non potrà rubare ancora per molto parte del gas russo per soddisfare una frazione delle proprie necessità: tanto meno, i russi continueranno per molto tempo ad immettere in rete un surplus di metano per bilanciare i furti degli ucraini e non perdere la fiducia dei clienti occidentali. L’indipendenza dal gas russo potrebbe diventare realtà, con il passaggio al carbone per l’industria energetica ucraina, ma la conversione richiederebbe molti anni, e Mosca non sembra disposta a concedere altro tempo a Kiev. L’altra alternativa è il nucleare, ma lo stato nel quale si trovano le vecchie centrali sovietiche (Chernobyl…) non consentono certo di guardare ad un futuro roseo e, soprattutto, sicuro.

La contesa ha sì contenuti economici – giacché il prezzo di 50$ per 1.000 m3 stabilito a suo tempo era un prezzo politico, pari alla quarta parte di quello pagato in Occidente, ed i russi non hanno interesse a favorire un ex alleato che ha cambiato campo – ma qui è l’aspetto strategico a prevalere.

Cosa possiamo attenderci? Nel lungo periodo la soluzione già esiste: un nuovo gasdotto collegherà la Russia (via Bielorussia, Polonia, Kaliningrad) alla Germania; addirittura, la società che dovrà costruire la condotta è russo-tedesca, con Gazprom a fare la parte del leone e l’ex cancelliere tedesco Schroeder nel consiglio d’amministrazione. Per l’Ucraina, il nuovo gasdotto potrebbe rappresentare la fine del gas russo.

E nel medio periodo?

Per gli anni a venire è stato siglato un accordo che ha fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo: finalmente, dopo la guerra, la “pace” del gas. Gli ucraini pagheranno il gas russo 95$ per 1.000 metri cubi, e questa sembrerebbe una sconfitta russa, ma per Kiev significherà raddoppiare il costo dell’energia: non si tratta certo del miglior viatico per affrontare un anno elettorale, visto che i costi dell’accordo verranno scaricati sulla popolazione.

Ed il minor introito russo? Niente paura, di vera pace si tratta, giacché il vicepresidente di Gazprom, Medvedev – che è in realtà il vero patron del gigante russo del gas – verrà presto in Occidente per “rivedere” i prezzi, gli accordi e le forniture. Da Mosca, però, ha già precisato che il metano russo subirà un aumento del 10%: ecco chi pagherà la “pace” del gas, ed ecco perché la presidenza di turno austriaca dell’Unione ha invitato i paesi membri ad una “profonda riflessione” sul futuro dell’approvvigionamento energetico. Che, al primo accenno alle energie rinnovabili, come sempre finirà a tarallucci e vino.


 

[1] La querelle sull’enclave russa di Kaliningrad, completamente separata dalla madrepatria, è forse il peggior ”regalo” che la caduta dell’URSS fece all’Europa, per alcuni versi paragonabile alla nota vicenda di Danzica prima della Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamo che, nel 1939, i nazisti invocavano la guerra contro la Polonia per riaprire il “corridoio” verso la città, ed ai giovani tedeschi veniva chiesto di “morire per Danzica”. Ho cercato di spiegare più approfonditamente la questione nel libro che dedicai, nel 2003, ai nuovi equilibri transatlantici. Carlo Bertani – Europa svegliati! – Malatempora – Roma - 2003

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