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C'era una vorta un Re cche ddar palazzo
Mannò ffora a li popoli st'editto:
«Iö sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
Pòzzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
Ché la vita e la robba io ve l'affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
O dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,
Quello nun pò avé mmai vosce in capitolo.»
Giuseppe Gioacchino Belli – Li soprani der monno vecchio
E’oramai chiaro a tutti che le prossime settimane saranno decisive per la sopravvivenza di questo governo, e tutto dipenderà dalla riforma del welfare: i giochi stanno per terminare e qualcuno finirà per farsi male, perché – se l’accordo del 23 Luglio passerà così com’è – la sinistra dello schieramento sarà definitivamente sconfitta. Al contrario, perderanno i centristi: non ci sono più margini di mediazione.
Vogliamo provare ad affrontare l’argomento con serietà, senza sparare a raffica montagne di numeri senza senso?
Rammento un lungometraggio che vinse un concorso a livello mondiale, fra il 1978 ed il 1982 – ricordo a braccio, se qualcuno lo trova sul Web me lo segnali – girato in una fattoria britannica.
Un agricoltore aveva optato per continuare ad usare i cavalli Shire per gli usi agricoli: arava, seminava, raccoglieva e trasportava con i cavalli.
Li accoppiava sempre agli strumenti, in tiri da 2 o da 4, operando un “mix” fra puledri e cavalli maturi, mentre i vecchi – i ronzini – erano adoperati saltuariamente in lavori meno pesanti.
Il problema – narrava – è che il puledro ha molta forza, mentre il cavallo maturo ne ha di meno, ma la sa usare meglio. I vecchi ronzini, infine, se lasciati soli nella stalla, intristiscono: a turno, facciamo trainare loro carretti, li attacchiamo ad un calesse o li utilizziamo per usi secondari, e la loro salute ne trae giovamento.
Se la nostra a azienda prospera – affermava – è proprio per l’attenzione che poniamo nell’addestramento e nella cura dei cavalli: senza il loro apporto, non avremmo potenza di trazione, tutto si fermerebbe e dovremmo “tornare” al trattore.
Ecco, quelle parole hanno un profondo significato, e dimostrano che – nella querelle delle pensioni e del welfare – i nostri governi sbagliano tutto.
Perché, per prima cosa, hanno ceduto in modo degenere ad una vecchia abitudine del massimalismo marxista: gli uomini sono tutti uguali, sono massa, e come tali si può considerarli come degli universali omogenei. Se il nostro agricoltore britannico avesse ragionato in quel modo, sarebbe andato a gambe all’aria in pochi mesi, scambiando i puledri per i ronzini.
In realtà, le persone sono aggregati biologici e, come tutti gli esseri viventi, camminano lentamente sulla via del tempo; il quale, regala e toglie a ciascuno di loro in modo diverso, seguendo più le albe ed i tramonti che le burocrazie europee. La nota teoria del mezzo pollo, non ha mai nutrito chi il pollo non lo può acquistare.
Chiederci dove inizia questo percorso è difficile, ma possiamo partire da un documento qualsiasi, tanto imboccarono una sola strada e non ne seppero individuare altre: questo è del 2000, di fonte UE, steso da una certa Anna Diamantopoulou[1], Commissario Europeo dell’epoca per l'occupazione e gli affari sociali. E’ bene ricordare che questa persona non era stata in nessun modo eletta democraticamente dai cittadini europei, ma solo dalle burocrazie di palazzo.
“Il rapporto tra pensionati e persone in età lavorativa raddoppierà tra il 2000 e 2040. Le pressioni aggiuntive sulle finanze pubbliche sono evidenti. La sfida per i responsabili politici è garantire che in futuro il finanziamento delle pensioni non destabilizzi i bilanci pubblici, pur mantenendo un'adeguata protezione per i pensionati.”
Questo piccolo brano contiene già, in sé, l’errore primigenio, quando afferma un legame fra il rapporto pensionati/popolazione attiva, la ricchezza prodotta (non considerata) e le finanze pubbliche. In altre parole, presume che gli occupati producano sempre la stessa quantità di ricchezza nello stesso tempo.
Il nostro agricoltore britannico, mostrava un nuovo tipo d’aratro – che un fabbro gli aveva costruito – il quale dimezzava di circa la metà la potenza di traino necessaria per arare lo stesso terreno. Per Anna, l’innovazione tecnologica e la maggior produttività non esistono.
L’errore di base, conduce quindi alla sua logica (ed errata) conclusione: se la ricchezza prodotta è la stessa – e gli occupati sono la metà – dovranno essere dimezzate le pensioni, oppure i lavoratori dovranno lavorare il doppio. Metteteci tutti i fiorellini che desiderate, ma la conclusione è questa.
“Rimuovere le barriere che impediscono alle persone anziane e alle donne di partecipare al mondo del lavoro sarà indispensabile per liberare tutte le risorse umane ed economiche della società.”
Questa frase, lei sola, vince il premio Pulitzer per il miglior eufemismo. Cosa significa “rimuovere le barriere”? Forse aprire le porte della stalla e tornare ad attaccare i ronzini (che non ce la fanno più) all’aratro?
Anche l’invecchiamento della popolazione, non è così importante: l’età media di vita tende ad aumentare, ma molto lentamente. Siccome, però, non vogliamo seguire Anna nel suo soliloquio del mezzo pollo, riconosciamo che il problema non è l’età media, bensì un numero più alto di persone d’età elevata, spesso bisognose di cure.
Il problema, allora, coinvolge di più la struttura sociale perché – senza solidi legami familiari od affettivi (dove sono finiti i PACS?) – nessuno può farcela a gestire per lunghi periodi un anziano non-autosufficiente. Si finisce per aspettare che muoia come una liberazione. Diverso è se l’anziano può rimanere nel suo domicilio e se altre persone (meno anziane, ma ancora attive, e/o giovani che svolgono un breve periodo di servizio sociale) possono prendersi cura di loro. Si tratta di gestire meglio e con saggezza le risorse interne delle famiglie o delle comunità, sorreggendole con interventi di sostegno. L’unica soluzione da non praticare – finché è possibile – è il ricovero nelle strutture para-ospedaliere, perché un paio di giorni di degenza finiscono per “mangiarsi” l’assegno d’accompagnamento di un mese.
L’errore è quindi di metodo, nel voler mettere in rapporto l’invecchiamento della popolazione – che richiede precisi interventi – con l’aumento dell’età pensionabile, senza rendersi conto che un ronzino non è più in grado di svolgere le stesse mansioni di un cavallo.
Se, invece, con quella frase Anna voleva indicare che – chi se la sente – deve essere incentivato a lavorare ancora, bisogna riconoscere che, a parte qualche slavato palliativo, l’età della pensione in Italia è rigida come una lastra di roccia. Senza considerare l’ansia che i lavoratori accumulano, sottoposti a continue possibilità di nuove riforme, che finiscono per farli pensare “me ne vado, mi diano quel che vogliono, ma non ne voglio più sapere”. Questo è quel che succede nel mondo reale, lontano dalle elucubrazioni della greca.
E per i giovani puledri?
Anche per loro, Anna aveva pronta una ricetta:
“Quanto alla riforma del mercato del lavoro, non è il momento di riposare sugli allori.”
Gli aulici allori, evocati dalla greca, esistevano soltanto nella sua mente di ex giovane ginnasiale: il mercato del lavoro europeo – per giovani ed anziani – era plasmato sui ritmi di sempre; ossia, dopo un breve periodo di prova, eri assunto in pianta stabile.
Intorno al 2000 (Commissione Prodi), non era ancora tempo per affrontare decisamente l’altro “segmento” del problema: c’era ancora da far “digerire” la riforma Dini delle pensioni, l’economia in calo, il prezzo del petrolio, la Cina, le dissennate guerre di Clinton e di Bush…
Ci pensa Berlusconi, che va a ripescare i lavori d’alcuni studiosi – D’Antona e Biagi, entrambi poi uccisi dalle “nuove” BR – in seguito definito (il secondo) un “rompicoglioni” dal Ministro dell’Interno dell’epoca – Scajola (FI) – perché aveva ricevuto minacce e chiedeva una scorta.
Scajola, in ogni modo, dopo una breve parentesi di “Purgatorio”, rientrò nei ranghi del governo come Ministro per le Attività Produttive, a significare che il “palazzo” stava dalla sua parte e non da quella del professore emiliano.
Per cui, si arguisce che un martire è meglio di un rompicoglioni.
La riforma immaginata da Biagi era qualcosa di un po’ diverso dal pateracchio iperliberista varato da Berlusconi: prevedeva sì forme di flessibilità d’ingresso nel mondo del lavoro, ma assicurava “contrappesi” per i periodi di disoccupazione.
In altre parole, si passava da un sistema rigido – dall’assunzione alla pensione – ad uno più flessibile, nel quale ci sarebbero stati periodi di disoccupazione e di aggiornamento, che sarebbero però stati coperti da appositi sostegni economici. Come? Semplicemente, perché il lavoratore “atipico” sarebbe costato di più del lavoratore “normale”, e questo è caratteristico delle economie europee più avanzate, quelle che producono beni appetiti ed alta tecnologia.
Sei un imprenditore sicuro dei tuoi mezzi e della tua analisi del mercato? Assumi a tempo pieno con oneri minori. Sei incerto, il mercato che ti appresti ad affrontare è più sfaccettato? Assumi pochi lavoratori, ad un prezzo maggiorato, e prova. Altrimenti, non dire che sei un imprenditore: cambia mestiere.
Invece, la scelta è stata proprio opposta: sei incerto? Va bene…ti consegniamo della forza lavoro che potrai usare come più ti aggrada, a costi minori, e che potrai licenziare quando vorrai. Accomodati, fai pure i comodacci tuoi.
Sarebbe come se il nostro agricoltore, dopo aver eseguito l’aratura di nuovi fondi, avesse lasciato liberi i puledri di pascolare sui fondi altrui, oppure li avesse condannati a brucare la poca erba della brughiera, con il risultato di minare loro il fisico. E dopo? Quando ti servono nuovamente?
E non finisce qui: i giovani puledri – continuando in questo modo – non lavorano abbastanza con cavalli maturi per imparare ad usare meglio le loro forze. Non maturano, non figliano, non evolvono: in definitiva, il naturale svolgersi delle generazioni s’inceppa.
Vorrei sapere che cosa c’è d’innovativo nella riforma della riforma della riforma (Treu, Legge 30, Damiano) rispetto al passato. 36 mesi da trascorrere in una sorta d’apprendistato, ai quali se ne aggiungono altri 15: in tutto, 4 anni e 3 mesi per decidere se una persona sa svolgere un lavoro. E dopo?
Se un imprenditore sa fare il suo mestiere, ha bisogno di 51 mesi per capire se un lavoratore è in grado di svolgere una mansione? Ma che imprenditore è?
Immaginiamo il nostro agricoltore che – operando un parallelo fra la vita media degli umani e dei cavalli – non sia in grado di capire, dopo 15 mesi, se un cavallo può essere attaccato ad un aratro. Attenzione: non stiamo parlando di vincere un Palio, ma di saper solo trainare un attrezzo!
Se l’imprenditoria italiana non è in grado – dopo 51 mesi – di capire se un lavoratore è in grado di svolgere una mansione, smettiamo di credere che esista una classe d’imprenditori. D’altro canto, nomi come Gardini, De Benedetti, Tanzi (solo i maggiori, che hanno affossato chimica, elettronica ed hanno tentato con l’alimentare) cosa sono? C’è poi la pletora di parvenu di regime che s’atteggiano a finanzieri ed imprenditori, mentre sono in realtà solo lacché di regime: sarebbe un finanziere Ricucci?
Allora, chiamiamo le cose con il loro nome: una classe d’imprenditori debole ed abituata a sopravvivere sotto l’ombrello dello Stato, non se la sa cavare nel mercato globale e cerca in ogni modo di “spremere” più che può i lavoratori per mascherare le proprie incapacità.
Non starò a tediare il lettore con le cronistorie di queste assurdità: ciascuno di noi ha sotto gli occhi esempi d’aziende “bollite” nel calderone della deindustrializzazione.
Cosa fa l’imprenditore italiano? Cura l’addestramento dei cavalli? No: sempre di più, utilizza i capitali per acquistare beni all’estero e li rivende, accontentandosi di un minimo margine, oppure investe solo dove sa d’essere “coperto” dallo Stato in mille, diversi modi. Siccome decenni di connivenza fra il potere politico e l’imprenditoria hanno creato un solido legame simbiotico (quanto hanno “preso” dal taglio del cuneo fiscale? Oppure lo strapotere, per decenni, di Mediobanca?), si sono create ricchezze stratosferiche, che generano consistenti redditi senza troppi rischi. In Italia, non esistono vere banche d’affari, bensì solo forzieri per gestire capitali.
Se parliamo di ricchezze, allora dobbiamo chiamare in causa il sistema finanziario. I banchieri s’interessano dell’addestramento dei puledri, della salute dei cavalli e dei ronzini?
No, a loro, della cosa non frega un emerito fico secco: d’altro canto, Anna li rassicura quando afferma che “il finanziamento delle pensioni non destabilizzi i bilanci pubblici”. Per il mondo della finanza, non ha particolare importanza dove e come si produce un bene: nel mondo del “mezzo pollo”, non ha nessuna rilevanza sapere chi e come ha generato ricchezza, e i banchieri non hanno mai visto né sanno distinguere un puledro da un ronzino.
Un po’ d’import/export, qualche “colpo” sul mercato immobiliare e, quando non basta, le combine truffaldine sui finanziamenti europei. Se un De Magistris lo scopre, si caccia il giudice.
Per le attività residuali – siccome siamo fuori da tutti i settori tecnologici di qualità – bisogna avere a disposizione mano d’opera a basso costo e saltuaria: se potessero affermarlo a chiare lettere, eleggerebbero il lavoro nero ed il caporalato a contratto nazionale di lavoro. Non lo affermò forse lo stesso ex Presidente del Consiglio, Berlusconi, che gli italiani si “devono arrangiare”? E i sindacati conniventi, che non hanno più niente da dire? Che spacciano come Verbo Divino il risultato di un referendum, il quale non ha nessun crisma di credibilità, che vale come un televoto di Bonolis[2]?
Se, invece, c’è un’azienda che opera bene, che è in attivo, che fa ricerca, allora le banche drizzano le orecchie e – come i lupi – aspettano il momento giusto per l’assalto. Un esempio? Fincantieri, azienda leader nel mercato della cantieristica di qualità: produce navi da crociera modernissime, stipula joint venture con la Germania per produrre sottomarini, cerca addirittura d’espandersi nel Mar Nero (acquistando cantieri in loco) per la produzione di minor pregio. Insomma, pianifica, progetta e lavora come un’azienda moderna che punta sulla qualità. Ovviamente, in quel caso, il mix di puledri e cavalli è mantenuto in equilibrio e i ronzini vanno in pensione: se produci beni appetibili, c’è abbastanza biada per tutti.
Un solo neo. E’ statale. Mio Dio – contessa – sapesse quale obbrobrio: nel paradiso iper-liberista del terzo millennio, c’è un dinosauro statale che marcia come una locomotiva e macina miglia su miglia. Oh no – Presidente – non possiamo tollerare un simile affronto: non è forse vero che il nostro Vangelo recita “non avrai altro credo che il privato”?
Così, s’iniziano ad avvertire sinistri scricchiolii: privatizzare…liberalizzare…aprire al mercato…
Insomma, c’è una “gallina dalle uova d’oro” e non si può lasciarla alla collettività: dobbiamo impadronircene, ad ogni costo. Aspettiamo la prossima luna piena, poi usciremo allo scoperto e daremo l’assalto al gregge.
Se qualcuno ha la memoria corta, è meglio ricordare che lo Stato aveva un’altra “gallina dalle uova d’oro” – la Società Autostrade – che aveva creato con i soldi pubblici (ossia i nostri). Rendeva, era in attivo, e fu privatizzata, ossia svenduta per quattro soldi. La Società Autostrade regge perché è una vera e propria slot machine: dove vai, in Italia, se non prendi l’autostrada?
Allora, s’infarciscono i consigli d’amministrazione di politici – veri, presunti o trombati – tanto per mantenere il legame con la classe politica: non sia mai che a qualcuno salti in testa di detrarre dal pedaggio i tratti dove si marcia ad una sola corsia. Se pago un servizio per 100 Km – e poi ne percorro 30 a passo d’uomo in coda su una sola corsia – perché devo pagare per 100?
Ovviamente, nessuno si fa avanti per le Ferrovie o per Alitalia: mica sono scemi.
A tutto le critiche contrappongono l’Europa: eh sì, maledetti fannulloni italiani, vi lamentate, ma non sapete come lavorano in Europa! Certo che in Germania e in Francia ci sono stipendi più alti, ma lassù lavorano di più!
Il che, è tragicamente falso: la media delle ore annue lavorate, in Francia e Germania, è di circa 1400 ore/anno, in Italia è di 1700[3]. Possono permetterselo perché producono tecnologia d’avanguardia, mica hanno chiuso o svenduto – come è capitato in Italia – le aziende che lavoravano per il futuro!
Già, ma vanno in pensione più tardi.
Vediamo allora come si comportano nella “rigidissima” Europa, dove ci fanno credere che tutti lavorino fino ai 65 anni, allegri e contenti. La fonte? Un documento ufficiale della CGIL[4].
Francia
Età pensionabile legale: 60 anni.
Pensionamento anticipato: 56 anni.
La Francia, inoltre, ha numerosi trattamenti pensionistici più vantaggiosi: macchinisti delle Ferrovie, 50 anni; autotrasportatori, 25 anni di contribuzione; insegnanti, dai 55 ai 60 anni. Vive la République.
Germania
Età pensionabile: 65 anni.
Pensionamento anticipato: 63 anni con 35 anni di contribuzione (e riduzione della prestazione).
Pensionamento anticipato per chi ha avuto periodi di disoccupazione : 60 anni, con 15 anni di contribuzione (e riduzione della prestazione).
Come si può notare, il sistema tedesco non è assolutamente rigido come si potrebbe pensare: a 63 anni si va in pensione con soli 35 anni di contribuzione (Italia: 37[5]) e per coloro che hanno avuto interruzioni nella vita lavorativa, addirittura 60 anni e 15 anni di contribuzione! (Italia: niente del genere, t’arrangi).
La riduzione delle prestazioni, poi, dobbiamo confrontarla con le loro retribuzioni, ben diverse dalle nostre, anche tenendo conto del differente costo della vita.
Regno Unito
Età pensionabile: 62,5 anni (Uomini), 60 anni (donne).
Il sistema inglese è molto diverso dal nostro (più improntato al “privato”, un po’ come negli USA) e si presta poco alle comparazioni. Basti pensare che la spesa pensionistica sul PIL è del solo 5%, raffrontato ai 12-15% delle altre nazioni. Ovviamente, se il tuo fondo pensione fallisce, sei perduto e ti rimane solo il misero fondo statale.
Tanti auguri agli italiani che hanno consegnato il loro TFR alla previdenza “integrativa”.
Spagna
Età pensionabile: 65 anni.
Pensionamento anticipato: 60 anni (persone assicurate prima del 1967); 61 anni (30 anni di contributi).
La “povera” Spagna si permette di mandarti in pensione a 61 anni con soli 30 anni di contributi (Italia: 37 a 62 anni). Olè.
Svezia
Età pensionabile garantita: 65 anni
Pensione anticipata/posticipata: da 61 a 67 anni
Il sistema svedese si basa più sugli anni di residenza che su quelli di contribuzione, trattandosi di un sistema molto diverso dal nostro, con forti connotazioni di sicurezza sociale. Molto difficile fare una comparazione.
Italia
Età pensionabile garantita: 65 anni (uomini), 60 (donne).
Pensione anticipata: 62 anni d’età e 37 anni di contribuzione (dal 2012).
Pensioni anticipate per le categorie “usuranti”: 57 anni, ma solo 5.000[6] “usurati” l’anno, purché abbiano svolto tale attività a regime per almeno la metà del periodo di lavoro complessivo o (nel periodo transitorio)
almeno 7 anni negli ultimi 10 di attività lavorativa[7]. E quelli che si sono “usurati” prima (mettiamo chi ha lavorato 15 anni agli altiforni, ma non negli ultimi anni), che fanno? Continuano ad usurarsi.
E quelli che non rientrano nei 5.000? Continuano ad usurarsi.
Pensioni per chi non riesce a completare i fatidici 37 anni? NIENTE. Aspetta i 65.
Vediamo la situazione al 1° gennaio 2013[8]: non è un abisso, sono solo poco più di 5 anni da oggi.
Riforma Maroni: 61 anni d’età e 35 anni di contribuzione.
Riforma Damiano: 62 anni d’età e 35 anni di contribuzione, oppure 61 anni d’età e 36 anni di contribuzione.
Come si potrà notare, paragonando le due riforme, i partiti “amici” dei lavoratori ed i sindacati “difensori” dei lavoratori chiedono esattamente un anno in più di lavoro rispetto all’odiato “nemico del popolo” Maroni.
Personaggi come Diliberto, invece di cavillare sull’eventuale traslazione della salma di Lenin – cosa, peraltro, non all’ordine del giorno in Russia – farebbero meglio ad osservare cosa sta per approvare il governo, con il voto dei partiti definiti “amici” dei lavoratori. Lo stesso vale per il caporal maggiore Giordano.
Pensate un po’ di meno a Castro, Chavez, Lenin ed altri “capataz” e provate a confrontarvi con la tragedia che avete sotto gli occhi: il vostro voto sarà usato proprio per colpire i lavoratori, per salvare gli interessi della Casta e di una pletora d’imprenditori incapaci.
Se desiderate estinguervi, votate questa riforma.
L’assurdità di questa riforma – per l’Italia – nasce dal voler “calare” per editto i 37 anni di contribuzione.
Non affannarti – Epifanio – a dire che bisogna mantenere i 58 anni perché “c’è gente che non ce la fa più”, perché non si capisce proprio per quale ragione – se oggi non ce la fanno più a 58 anni – fra pochi anni, nel 2012, dovranno farcela a 62.
Mettere insieme 37 anni di contribuzione, in Italia, non è proprio uno scherzetto: nel settore privato bisogna vedersela con la “flessibilità” in entrata (leggi: nessun contributo valido grazie al precariato) e con i periodi di disoccupazione, mentre anche nel settore pubblico c’è l’inganno. Fai 12 anni da precario (nella scuola): in sede di ricostruzione di carriera, te ne conteggeranno solo 9, perché sei stato licenziato a Giugno e riassunto a Settembre. Corri, cavallo, corri dietro alla carota che non raggiungerai mai!
E non finisce qui: ci sono dei contributi previdenziali (ENASARCO, ad esempio) che non sono cumulabili con altri servizi; se hai lavorato qualche anno come agente di commercio, l’ENASARCO ti dice grazie, si tiene i tuoi contributi e non ti dà niente. Manca la legge per ricongiungerli: peccato…
E i soldi dove sono finiti?
In un immenso patrimonio immobiliare[9], che non rende quasi nulla. E perché non rende quasi nulla? Poiché si tratta dei famosi appartamenti dati in locazione – a prezzi irrisori – ai politici ed ai loro lacché, dei quali hanno approfittato tutti, dalle bandiere nere a quelle rosse, passando per scudi crociati, rose, garofani, ulivi, querce e quant’altro. A noi, sono rimasti solo i crisantemi.
Su tutto, poi, regna sua maestà “lavoro nero”, che è definito una “piaga”: sarà pure una piaga, ma se gli italiani lavorano in nero è perché non c’è altro, mica ci godono.
Se poi aggiungiamo che tutti i lavoratori (precari e non) versano più di quello che ricevono – mentre i dirigenti (pubblici e privati) hanno pensioni da favola e versano meno di quello che ricevono – la frittata è fatta.
Sarebbe come se i prodotti dell’azienda fossero utilizzati per nutrire una schiera di cavalli da corsa, che si sollazzano d’orzo e d’avena senza mai produrre nulla.
Come si può notare, ci stanno facendo un bel “pacco”, niente da dire.
Ronzini che tirano l’aratro e puledri che vengono utilizzati per qualche mese, ora qui, ora là, senza cibo nei periodi di non lavoro. Così, devono dividersi la biada che sono obbligati a risparmiare i cavalli e i ronzini. Quanti genitori, pensionati, continuano a “foraggiare” i figli perché, da soli, non possono farcela?
Proiettando nel futuro la situazione, sempre più cavalli che raggiungeranno la maturità senza esperienza, puledri sempre più “vecchi” ed inesperti e ronzini che creperanno perché non ce la faranno più.
Il nostro povero agricoltore, piange e vorrebbe a comprare un trattore, ma non ha i soldi per acquistarlo.
E qui torniamo da capo, da Anna che traccia un legame fra l’accantonamento pensionistico ed il bilancio statale, e si preoccupa che le pensioni mandino a fondo lo Stato.
La greca non considera che il bilancio statale è un universo composito, nel quale rientrano migliaia di voci – i costi della politica, ad esempio – no, quello ad Anna non interessa.
Anna non s’è accorta che la vera ragione della mancanza di ricchezza (la biada) è un’altra: sono arrivati i topi, che stanno dilagando nel magazzino e si mangiano tutto.
Se ogni incremento della ricchezza (con l’emissione di valuta) viene pagato ai banchieri con titoli del debito pubblico – ossia questi ci vendono carta in cambio del nostro lavoro – i bilanci statali non faranno che peggiorare inesorabilmente. Il fenomeno – il signoraggio – è europeo, ma in Italia viene avvertito di più poiché siamo più indebitati, abbiamo la peggior classe politica europea ed abbiamo un apparato produttivo fragile e fatiscente.
La nostra classe politica racconta di voler correre ai ripari, ma proprio il recente Primo Novembre – Festa d’Ognissanti – ha “stralciato” l’emendamento della Finanziaria che prevedeva di risparmiare 249 milioni di euro sui costi di Governo, Parlamento, ed altri organi istituzionali. Non c’era un solo Santo, quel giorno, che stesse a guardare. “Stralciato”: fine.
Era una minuscola “limatina” di unghie, una miseria: manco quella hanno accettato! E poi si lamentano della cosiddetta “antipolitica”! Quei soldi, dovevano servire per coprire l’abolizione dei ticket sulla diagnostica, ed ora – affermano – “bisognerà trovare altre fonti di copertura”. Speriamo che le trovino ad almeno quattro palmi dal nostro sedere.
Puerili, poi, le misure di “risparmio” contenute in Finanziaria: i Governi dovranno essere più “leggeri”. Sì, ma dal prossimo: noi, restiamo in 103. Il prossimo governo, poi, potrà cambiare nuovamente la legge.
Anche le famose “sforbiciate” alle consulenze od agli Enti Locali, sappiamo come andranno a finire: in una miriade di ricorsi ed in mesi di “aggiustamenti” per vanificare qualsiasi risparmio; sono forbici “spuntate” in partenza. Perché? Riflettiamo che, quei “risparmi”, andrebbero a colpire il popolo dei politici “trombati”, i quali siedono nelle amministrazioni secondarie nell’attesa di rientrare in pista. Sono posti creati ad hoc per quello scopo: cane dovrebbe mangiare cane?
Risparmi? Certo che risparmiano, risparmiano sui trasferimenti agli Enti Locali, dando però agli stessi la potestà d’imporre nuove gabelle. Nella mia busta paga (uno stipendio medio) il contributo per gli Enti Locali ha superato i 50 euro: se ci aggiungiamo i 10 euro (medi) che si prendono con la vergognosa bolletta dell’ENEL (con quel che costa l’energia in Italia…) s’arriva a 60 euro, 720 euro l’anno.
Se i lavoratori dipendenti sono circa 17 milioni[10], parliamo di circa 12 miliardi di euro l’anno! Solo per gli Enti Locali! E quello che pagano i lavoratori autonomi e le altre categorie? A quanto si arriva? Tralascio quello che si prendono lo Stato e gli Enti Locali sui passaggi di proprietà delle auto, bolli vari, autovelox, parcheggi “blu” a iosa…
A quanto ammontano i costi per le “consulenze”? Quelli per i viaggi di “Stato”? Le spese di rappresentanza delle Regioni? Gli astronomici costi del Parlamento, del Governo, della Presidenza della Repubblica?
E poi ci raccontano che la riforma del welfare costerebbe l’iperbolica cifra di un miliardo di euro l’anno?
Ecco dove il rapporto fra bilancio dello Stato e welfare, tracciato da Anna, non quadra più: nessuna nazione al mondo ha una struttura come la nostra: Stato, Regioni, Province, Comuni, Circoscrizioni e Comunità Montane. Costa troppo! L’errore di Anna (sposato da Maroni e Damiano), è di metodo e di merito: non esiste un legame univoco fra la previdenza ed il bilancio statale, poiché è una sola voce fra tante. Inoltre, non è certo la previdenza “l’idrovora” delle finanze pubbliche. Sono loro le idrovore.
Ecco cos’è diventata l’Italia: un’azienda agricola nella quale nessuno si prende la briga d’addestrate i cavalli, dove i proventi della terra sono usati per mantenere degli inutili e boriosi cavalli da corsa e, dulcis in fundo, con il magazzino infestato dai topi.
La medicina?
Tagliare i legami fra classe politica e l’imprenditoria di regime: anzi, tagliare proprio fuori questa classe politica. E, come nei migliori romanzi di Agatha Christie, un po’ di risolutivo “veleno per topi”.
Non ci sono altre soluzioni: altrimenti, con la prossima riforma, stabiliranno a 70 anni l’età della pensione e, per i giovani, ci saranno solo l’emigrazione o la schiavitù.
Senza una nuova classe politica, questo Paese è condannato.
[1] Pensioni sostenibili: La Commissione vara un piano per modernizzare le pensioni in Europa. 11-10-2000.
[2] Ricordiamo che qualsiasi consultazione elettorale, per essere valida, deve essere controllata ed i risultati devono passare al vaglio delle Corti d’Appello.
[3] Fonte: OECD Economic Outlook, 2005.
[4] Newsletter del Segretariato Europa CGIL (2005) – www.cglil.it/segretariatoeuropa
[5] Il valore è quello della riforma che dovrebbe essere approvata dall’attuale governo.
[6] Secondo l’ultima revisione della riforma, il “tetto” dei 5.000 sarebbe saltato. Però, Dini ha già affermato che non voterà nessun mutamento alla riforma originaria. Sic stantibus rebus…
[7] Fonte: Governo Italiano: Protocollo su previdenza, lavoro e competitività. Per l’equità e la crescita sostenibili.
[8] CISL: Accordo Governo – OO.SS. del 23 luglio 200: la riforma di tutti.
[9] “Patrimonio importante, in bilancio vale 3,25 miliardi ma poco redditizio, tra lo 0,7 e l’1%. Soprattutto abitativo (14 mila appartamenti) e gestito con «criteri sociali» quanto ad assegnazioni ed affitti che interessano, soprattutto nella Capitale, 40-50 mila cittadini”. Fonte: Corriere della Sera, 16 maggio 2005.
[10] Fonte: ISTAT, Rilevazione sulle forze di lavoro, III trimestre 2006.