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Come decenni di sciagurata gestione del credito ci stanno facendo precipitare in un antistorico “Terzo Mondo” europeo.
«Se chi lavora mangiasse, cosa mangerebbe chi non lavora?»
Da I pensieri di Gasparazzo – Lotta Continua – Torino – 1975
Di questi tempi sembra che lo scontro politico sia giunto al parossismo: una lotta senza quartiere fra centro-destra e centro-sinistra, dichiarazioni al vetriolo, ironie pesanti, dileggio, sarcasmo.
Eppure – e credo che molti lettori ed ascoltatori TV abbiano percepito l’incrinatura di un dibattito sempre di più avviluppato su sé stesso – i veri argomenti della contesa non sono quelli urlati in televisione o dipanati sulle prime pagine dei quotidiani.
Siamo giunti al redde rationem, e non per questo o quell’indicatore economico negativo, non per i tentativi di blitz istituzionali, non per la riforma della Costituzione, nulla di tutto ciò è importante quanto lo scontro che si sta materializzando all’interno del capitalismo italiano, giacché è una guerra che non trova soluzione dall’unificazione, dal Risorgimento.
Tutto potrebbe, ancora una volta, rimanere immutato? Così non è e non potrà essere: le metamorfosi internazionali impongono profondi cambiamenti nello Stivale, altrimenti la globalizzazione dei mercati sancirà il de profundis finale per il “malato Italia”.
Perché “malato”?
La malattia è cronica e profondamente radicata perché non siamo mai riusciti a definire in modo chiaro la laicità dello Stato: passi pure sulle questioni etiche – al massimo si fanno tanti bei referendum – passi anche nel costume; ciò che non può “passare” è in economia, altrimenti si va a fondo.
Il concetto di laicità dello Stato in economia non è la semplice negazione della preminenza di questo o quel gruppo legato a settori religiosi: questo è soltanto l’aspetto esteriore. La vera laicità dello Stato in economia significa che le regole del mercato non sono giustificate da dogmi, e si compie quando si applicano regole comunemente condivise che – nell’esperienza – generano risultati accettati e ritenuti, sostanzialmente, positivi. Insomma: una buona dose di relativismo e sperimentazione, contrapposta all’assolutismo dogmatico.
E’ un dibattito pericoloso, che non viene mai posto all’attenzione dei media, e per questa ragione fa parte a pieno titolo della cosiddetta “controinformazione”, anche se qualche sotterranea e flebile voce si levò anche in passato, a testimoniare che il problema non è proprio senza importanza.
Tina Anselmi – ex Presidente della commissione d’inchiesta sulla P2 – ha recentemente rilasciato una lunga intervista televisiva, che concludeva con una frase lapidaria: «Nulla di quanto sta accadendo oggi è spiegabile senza una profonda comprensione di ciò che fu la P2». Già, “profonda” comprensione.
Della P2 – chi più chi meno – sappiamo tutto o, almeno, crediamo di sapere: i Servizi deviati, Gelli, Calvi, Sindona, Marcinkus…c’è qualcosa di più “profondo”?
Una prima chiave di lettura sgorga prepotente dalla cronaca di questi mesi: due grandi banche straniere cercano d’acquistare il controllo di due banche italiane, Antonveneta e BNL, e su questo caso si consuma uno scontro di Titani fra i poteri dello Stato. E’ un fatto del tutto normale?
Fusioni ed acquisizioni sono ormai – nel panorama internazionale – la regola e non l’eccezione: è invece assolutamente incongruo che qualcuno, in Italia, ritenga di poter ancora opporsi all’internazionalizzazione dell’economia.
Le due banche che vorrebbero acquisire il controllo rispettivamente di Antonveneta e BNL sono il gruppo olandese ABN-AMRO ed il Banco di Bilbao: entrambe sono sì – almeno nominalmente – riconducibili ad uno Stato, ma per quanto attiene alla capitalizzazione non si può certo parlare di banche “olandesi” o “spagnole”.
In ABN-AMRO operano gruppi finanziari sauditi, mentre la banca ”spagnola” è referente della vasta area d’interessi iberici in America Latina. In qualche modo, entrambe collegano – idealmente – la realtà odierna con il passato, Compagnia delle Indie od Impero spagnolo che dir si voglia.
Due grandi realtà bancarie, quindi, cercano d’entrare nel mercato italiano: perché lo fanno?
Perché sanno che lo Stivale custodisce uno scrigno: il più ingessato, contorto, controllato mercato bancario europeo; chi ha al suo arco grandi potenzialità, è in grado di scompaginare rapidamente l’Armata Brancaleone italiana ed installarsi sul trono.
Non è un mistero che le banche italiane non concedano mutui per l’acquisto della prima casa ai cosiddetti CO.CO.CO (ovvero i pessimi frutti della legge Biagi), ma è altrettanto vero che molte banche straniere (tramite Internet) concedono ai CO.CO.CO italiani quei mutui ipotecari che i direttori italiani in doppiopetto disdegnano e negano con un’alzata di spalle.
Perché lo fanno? Semplicemente poiché chi non paga perde la casa, ed alle banche straniere questo tipo di garanzia basta.
Chiediamoci allora: perché – la stessa garanzia – non è sufficiente per gli istituti italiani?
Per comprendere l’asfittica gestione del credito da parte degli istituti italiani, basta spiccare un salto all’indietro e ricordare la vicenda Parmalat: chi ha praticamente “coperto” il crack di Tanzi? Migliaia di sottoscrittori dei bond Parmalat, ovvero il popolo dei “risparmiatori”.
Questi “risparmiatori” non sono i grandi investitori protetti dal regime, bensì il popolo del piccolo risparmio, della liquidazione investita per assicurarsi una vecchiaia più serena, dei soldi messi da parte (con la speranza che fruttino un po’) per acquistare la casa ad un figlio.
Costoro, singolarmente, non hanno peso contrattuale (sono un altro “parco buoi” come quello azionario) ma rappresentano – se sommati – un’importante potenzialità economica: la sciagura, per i grandi gruppi finanziari, avverrebbe qualora al peso economico corrispondesse un coerente “peso” nelle scelte operate degli istituti bancari.
Grazie a questi enormi capitali, generati da milioni di piccoli risparmiatori, i gruppi bancari gestiscono il credito ovunque ma in Italia, se l’acquisizione di capitali avviene su vasta scala, la successiva erogazione – ovvero il credito – giunge nelle mani di pochi.
Nella mentalità anglosassone, invece, il credito è considerato quasi un diritto: chiunque desidera progredire economicamente deve aver accesso al credito, salvo poi prevedere pesanti sanzioni per chi cercasse d’approfittarne.
Tutto il mondo del capitalismo anglosassone è permeato da questa mentalità: concessione del credito e severe sanzioni per chi elude le regole; a ben vedere, le “terribili” associazioni dei consumatori americane completano questo sistema, fornendo un ulteriore controllo sulla qualità dei prodotti e dei servizi.
Ciò non significa che il sistema anglosassone sia perfetto o che sia la panacea per tutti i mali, ma sommando i vari fattori – credito, società di controllo, scarsa burocrazia, associazioni di consumatori e severità (penale) per chi elude le regole – si ottiene un buon mix, ovvero il classico concetto liberal dell’economia, da non confondere con il liberismo sfrenato e senza regole. Il crack americano di Wordlcom, è costato al suo Presidente una condanna a 25 anni di carcere.
In Italia il credito è concesso con il contagocce, le società di controllo hanno talvolta staff o persone in comune con le banche e le aziende che dovrebbero controllare, la burocrazia è opprimente, il peso delle associazioni dei consumatori è scarso e, infine, la lentezza della giustizia impedisce che la sanzione funzioni da deterrente contro i “furbi”.
Due sistemi a confronto: l’uno proiettato verso la circolazione capillare del credito, l’altro verso l’accentramento di grandi risorse a beneficio esclusivo di pochi eletti.
Risultato: l’apparato produttivo italiano si basa su poche, grandi famiglie che decidono in completa autonomia i destini economici (ed il corrispondente livello tecnologico) dell’industria italiana, perché qualsiasi prodotto innovativo – che potrebbe conquistare mercati[1] – viene prodotto soltanto se c’è accordo all’interno dell’oligarchia economica.
La FIAT è il più lampante degli esempi: nata con le commesse militari della prima guerra mondiale, cresciuta nell’autarchia fascista, protetta e sorretta nei decenni democristiani per quasi un secolo visse tranquilla, forte della sua posizione di privilegio nel mercato italiano. Quando la caduta del Muro scardina quel mondo, Torino si scopre nuda: tenta un accordo con General Motors, ma dopo qualche anno viene rispedita al mittente con una buonuscita di miliardi di dollari, basta togliersela di torno.
La FIAT, oggi – nel panorama mondiale dell’automobile – è un trovatello che è stato profumatamente pagato per non rovinare la tappezzeria di chi veramente opera nel mercato: non è un buon viatico farsi spedire a casa – con una profumata liquidazione – perché non si è desiderati.
Ecco spiegata la “navigazione” a vista della casa torinese: un piccolo accordo con Ford per produrre insieme due veicoli sullo stesso telaio ed una (probabile) futura collaborazione con il gruppo indiano TATA, una trattativa aperta con l’alta serie C.
Le altre case automobilistiche europee – grandi e piccole, famose o meno conosciute – sono invece riunite in vari gruppi, mentre la FIAT è sola.
L’azienda non può più contare sull’appoggio dello Stato (proibito dai regolamenti comunitari) e nemmeno bussare ad altre porte: dopo la figuraccia americana è come essere finiti sul registro dei protesti. Per fortuna ci pensano le banche: ma se le banche devono soccorrere FIAT, Parmalat e la sfilza d’incompetenti che non sanno vivere nell’economia globale, per gli altri rimane poco o niente.
Si potrebbe obiettare che l’Italia può fare a meno della grande industria meccanica (ha già perso, praticamente, la chimica con Gardini e l’elettronica con De Benedetti), giacché possiede almeno il 50% del patrimonio artistico del pianeta: insomma, potremmo essere la vetrina dell’estetica, la galleria del bello d’ogni epoca.
Invece, la Francia attira il doppio dei turisti stranieri dell’Italia, pur avendo solo una piccola frazione del suo patrimonio artistico e naturale. La ragione?
I prezzi delle offerte turistiche, in Francia così come in Germania, Spagna, Croazia, ecc. sono più bassi, notevolmente più bassi che in Italia, e la gente ci pensa su due volte quando deve spendere il doppio per una vacanza.
Non siamo capaci d’avere strutture turistiche competitive? Non è certo colpa dei ristoratori italiani: ancora una volta il problema è il credito.
Salvo qualche grande gruppo alberghiero, il tessuto del turismo è un universo polverizzato, realtà familiari o poco più che s’arrabattano per campare da una stagione turistica all’altra. Tutte queste realtà soffrono per carenza di credito e – badiamo bene – si tratta di gente che non si tira certo indietro di fronte alla fatica.
Come possono alberghi, ristoranti, agriturismi, campeggi, locande e poi ciò che “circonda” il turismo, ovvero balneazione, equitazione, fitness, iniziative culturali e quant’altro investire e prosperare con l’assillo, la tagliola di una banca che concede pochissimo ed è sempre pronta a ritirare i fondi?
Va da sé che – per rimettere in ordine i conti (e non finire sotto gli strali della banca) – si “ritoccano” i prezzi verso l’alto, e si va fuori mercato. Risultato: litorali italiani sempre meno affollati e tutto esaurito in Spagna ed in Croazia.
Nessuno sfugge a questa ferrea legge: dal produttore di mobili brianzolo all’agricoltore siciliano, tutti sono sempre sull’orlo di finire in mano ai “cravattari”.
Chi beneficia degli immensi fondi rastrellati dalle banche?
Con i fondi che dovrebbero essere convogliati verso il credito capillare si finanziano operazioni di mera speculazione a vantaggio ora dell’una, ora dell’altra grande famiglia del capitalismo italiano: perché l’unica banca d’affari italiana fu sempre e solo Mediobanca, diretta dalla stessa persona – Enrico Cuccia – per decenni?
Il controllo dell’oligarchia finanziaria sull’economia reale (quella che produce beni e servizi realmente fruibili) risulta quindi la classica palla al piede d’origine feudale che l’Italia si trascina appresso: anche l’esorbitante preminenza della finanza sugli aspetti tecnologici ed industriali non fa che deprimere le capacità creative degli italiani, che da paese di gioiosi inventori stanno diventando una landa di muti depressi.
Come giustificano le banche questo atteggiamento?
La principale giustificazione riguarda l’alto numero delle cosiddette “sofferenze”, ovvero i soldi che la banca presta e non riesce più a recuperare[2], più alto della media europea. Già l’incrocio di questi primi dati dovrebbe far spalancare gli occhi: com’è possibile che, nel paese dove più si stringono i cordoni del credito, si perdano più soldi?
Invece, il dato è coerente. La media dei crediti concessi è più bassa rispetto alla media europea[3] e ciò comporta per chi opera nel mercato una cronica, costante carenza di risorse: se, per mantenere competitiva un’azienda, per ristrutturare un ristorante, per aprire una stazione di servizio sono necessarie determinati flussi di credito, ricevendone soltanto una parte l’azienda parte e vive “zoppa”.
Gli italiani sono maestri nel fare di necessità virtù, ma oggi siamo europei e dobbiamo giocoforza sottostare alle regole europee: sicurezza, efficienza, rapidità e precisione, tutti fattori che richiedono automazione e formazione, e se il livello qualitativo delle aziende deve elevarsi, ciò significa che ci vogliono più risorse, più credito.
In mancanza del necessario, ci si “arrabatta” sperando nella buona stella – ma il firmamento ruota immutabile – e ad una buona stella ne segue sempre una un po’ peggiore. Sfortuna? Incapacità? No, mancanza di pianificazione dovuta a carenza di credito, quel credito che avrebbe consentito di mettersi al riparo da eventuali imprevisti.
In queste condizioni, molte attività produttive non ce la fanno e chiudono i battenti; risultato: le banche annotano una nuova “sofferenza” – che assorbirà altre risorse negli infiniti iter giudiziari – ma che si trasformerà in sofferenza vera per le famiglie, per gli esseri umani che corrispondono ai nomi scritti sulle carte bollate.
Insomma, un colossale ed insensato gioco al massacro che coinvolge da un lato le banche, dall’altro milioni d’italiani che vorrebbero guadagnarsi da vivere onestamente facendo impresa e non possono farlo: gli italiani continuano incessantemente ad inventare[4], ma non possono trasferire la loro creatività nel mondo reale. Ovviamente non sono toccati da queste vicende i grandi investitori, gli immobiliaristi, i grandi speculatori di Borsa, giacché spesso detengono quote del capitale azionario delle banche, fanno parte a pieno titolo di quel mondo e per loro non esistono “sofferenze”: suvvia, signori, siamo fra gentiluomini. La famiglia Tanzi sentitamente ringrazia.
Nel sistema del credito non esistono però solo le banche: l’Unione Europea ha stanziato negli ultimi decenni notevoli somme destinate proprio alla creazione d’imprese, soprattutto nelle aree più povere; i singoli Stati – poi – hanno deciso in autonomia le forme d’erogazione dei crediti. Che cosa ha fatto l’Italia?
A differenza d’altre nazioni, che optarono per una gestione centrale dei fondi europei (Spagna, Portogallo, Irlanda, ecc), l’Italia delegò le Regioni all’erogazione dei fondi sulla base di precise leggi dello Stato come, ad esempio, quella per lo sviluppo dell’imprenditoria femminile; a loro volta, le Regioni delegarono molti compiti alle Province.
Risultato: qualsiasi finanziamento doveva passare al vaglio delle Amministrazioni Locali, scatenando così gli appetiti delle forze politiche per il controllo dei fondi. Spesso, i fondi non sono stati erogati proprio per il mancato accordo fra le forze politiche sulla spartizione degli stessi, che dovevano sempre essere bilanciati seguendo le locali logiche clientelari di partito (diverse, oltretutto, da luogo a luogo).
Spesso, quei fondi che dovevano essere credito corrisposto alle imprese, venivano gestiti solo dalle amministrazioni pubbliche (a tutti i livelli) giacché le farraginose procedure per ottenere il credito scoraggiavano chiunque non avesse a disposizione un ufficio tecnico e finanziario. Strutture che, le amministrazioni locali, ovviamente possiedono.
Si giunse addirittura, da parte italiana, a non utilizzare completamente i finanziamenti a disposizione e l’UE[5] (giustamente) dirottò quei fondi verso i paesi che li usavano: il cosiddetto “miracolo economico” irlandese è nato proprio dai fondi europei che l’Irlanda ha saputo attrarre, compresi quelli inutilizzati dall’Italia.
Cosa è accaduto – in Italia – dove i fondi sono stati concessi?
Non è apprezzabile alcun segno d’incremento nell’imprenditoria privata che possa essere messo in relazione con i finanziamenti europei: chi riceveva quei fondi li destinava spesso alla costruzione di capannoni che – sulla carta – sarebbero divenuti sedi di fantomatiche aziende. Inutile ricordare che, ricevuti i fondi, le aziende non sono mai decollate: recentemente, sembra che la Magistratura stia verificando la correttezza delle procedure seguite, degli interventi che hanno disseminato – uno fra i tanti esempi – l’entroterra di Trapani di capannoni industriali vuoti e silenziosi.
D’altro canto, cosa potevamo ragionevolmente attenderci da uno Stato che consegnò – negli anni ’70, circa 700 miliardi di lire (dell’epoca!) nelle mani di Nino Rovelli – per creare stabilimenti della SIR (Società Italiana Resine) in Sardegna, capannoni costruiti e poi abbandonati senza che avessero creato né reddito né occupazione? Il famoso processo a Cesare Previti nasce da quelle vicende.
Ancora una volta il credito – come diritto all’esistenza, ed in quanto tale bene di primaria importanza – viene confuso con una lotteria, con i soldi piovuti dal cielo, in quel caso dall’Europa: chi non sa riconoscere il valore sociale del credito, non è in grado di maturarne il rispetto.
L’accesso al credito europeo avrebbe scardinato proprio quel sistema medievale ed oligarchico che vige nello Stivale: piuttosto che venir meno a quel consolidato principio, si preferì abbandonare tutto alle ortiche. Si noti – a margine – la raffinatezza tutta democristiana di concedere sì i fondi, ma con modalità che li rendevano a priori – di fatto – inutilizzabili.
Dobbiamo, a questo punto, chiederci quali sono i vantaggi nel “mettere il freno” alle potenzialità creative e produttive del paese, perché si tratta – apparentemente – di una incongruenza che porta solo difficoltà economiche.
Torniamo a Tina Anselmi ed a quella sibillina frase: comprendere “profondamente” il fenomeno P2.
Appena asceso al trono, la tessera P2 n° 1816[6] Silvio Berlusconi inizia ad applicare molti passi del programma politico della P2, tanto che Licio Gelli se ne compiace pubblicamente. Nei primi mesi di governo nasce la legge n° 366 del 3 ottobre 2001, che regolamenta in modo nuovo il mondo cooperativo[7].
Sostanzialmente, scompare la figura del socio-lavoratore, ovvero chi fonda od entra in una cooperativa con un piccolo capitale (a volte, puramente nominale) e presta servizio all’interno della cooperativa ricevendo un salario che viene deciso dai soci stessi: è uno dei capisaldi del movimento cooperativo, sin dalla sua nascita.
Il provvedimento sarà poi completato con il Decreto Legislativo n. 6 del 17 gennaio 2003 e, infine, con la cosiddetta “legge Biagi”, e le cooperative riusciranno a sopravvivere sostituendo alla figura del socio lavoratore quella del socio-CO.CO.CO, ma ormai il colpo è inferto[8].
Altri passi della legge sanciscono un diverso trattamento per i soci “fornitori di capitali”, un differente peso nel voto delle assemblee, e la possibilità (a quelle condizioni, quasi obbligata) di trasformare la cooperativa in società per azioni od a responsabilità limitata.
Per quale ragione Berlusconi s’accanisce contro il movimento cooperativo?
Si potrebbe sostenere che ne è sospinto dal proprio DNA, come un ratto avverte avversione per l’odore del serpente, ma c’è dell’altro.
Nella sezione riservata alle cooperative, all’art. 2 comma b, si legge “prevedere, al fine di incentivare il ricorso al mercato dei capitali, salve in ogni caso la specificità dello scopo mutualistico e le riserve di attività previste dalle leggi vigenti, la possibilità, i limiti e le condizioni di emissione di strumenti finanziari, partecipativi e non partecipativi, dotati di diversi diritti patrimoniali e amministrativi;”
“Al fine di incentivare il ricorso al mercato dei capitali”, ecco cosa vuole ottenere Berlusconi: se, nella seconda parte del comma si concede l’emissione di strumenti finanziari, non è quello il vero scopo.
Il sistema delle cooperative, per sua natura, è uno strumento che può anche non far riferimento al credito: con l’elasticità concessa ai soci di decidere in autonomia le quote da riservare ai salari ed alla capitalizzazione, la cooperativa può creare capitale quando ne ha necessità e destinare invece le risorse ai salari se non ci sono necessità di capitalizzazione. Se, durante un esercizio finanziario, si prevedono spese per l’acquisto d’attrezzature, scendono i salari, all’opposto salgono. Questa elasticità non era prevista per le società con dipendenti, ai quali bisognava corrispondere il salario sindacale, ma ci si dimenticò che la cooperativa non poteva creare utili, se non quelli reinvestiti nella cooperativa stessa.
L’ultima “riserva indiana” che poteva esimersi dal controllo capillare del credito cadde quindi quel 3 ottobre del 2001, anche se le successive modificazioni resero possibile la sopravvivenza formale delle cooperative: il danno economico per la nazione sarebbe stato troppo alto[9].
Ancora una volta il credito: non sia mai che qualcuno possa arrogarsi il diritto di capitalizzare risorse e decidere in piena autonomia come ed a chi destinarle; per fortuna il movimento cooperativo ebbe la forza d’opporsi e di resistere, salvando il salvabile, altrimenti oggi piangeremmo ben altre débacle economiche rispetto alle già gravi condizioni nelle quali ci ha trascinati il cavaliere da Arcore.
Tutto ciò fu tentato da un uomo che era organicamente inserito nel mondo della P2, non da una persona che aveva ricevuto una tessera per caso, perché quel mondo gestiva interessi finanziari enormi – probabilmente legati alla mafia americana ed al traffico di stupefacenti – ma non si trattò di una semplice associazione a delinquere, bensì di un potentato economico interno allo Stato.
Dove trovare strutture finanziarie che siano nello Stato e – allo stesso tempo – ne siano estranee?
Nel suo bel libro “Il Pastore tedesco”, Angelo Quattrocchi delinea un ritratto economico di quello che potremmo definire il “Vaticano s.p.a.”: un quadro che fa tremare i polsi.
Le proprietà della Chiesa non passarono allo Stato Italiano nemmeno dopo la resa dello Stato Pontificio, con un agguerrito Quintino Sella Ministro delle Finanze, figuriamoci dopo. Il fascismo pagò la tangente alla Chiesa ottenendo appoggio politico, ovvero chi benediva i cannoni delle avventure del regime e metteva il bavaglio all’Azione Cattolica. I democristiani erano – essi stessi – emanazione di quel mondo. Bettino Craxi operò l’ultimo inchino Oltretevere.
Quel patrimonio immobiliare, mai tassato, mai indagato, mai osservato ha generato nei decenni frutti enormi, ed è oggi il “nocciolo duro” della finanza italiana, quel “nocciolo” che permette al cardinale Ruini di sentenziare sull’incostituzionalità (PACS) di una legge di uno stato estero. Notiamo che non si tratta di un legittimo giudizio morale – ma giuridico – passato sulle teste di tutti, anche dei non cattolici.
Il Vaticano s.p.a. fa paura perché sa essere generoso ed inflessibile, come lo fu – in diverse situazioni – sia con Calvi che con Sindona. Poi, il regista di quelle operazioni, Marcinkus, sparì nelle nebbie di una dimenticata parrocchia statunitense, grazie ai privilegi d’internazionalità che solo la Chiesa possiede. Promoveatur ut amoveatur.
Il Vaticano s.p.a. fa tremare i polsi anche a Rutelli, che balbetta di fronte ai PACS e s’allinea con il cardinale Ruini, terrorizza i DS che s’affrettano a genuflettersi quando un gruppo d’universitari inscena una pacifica ed ironica manifestazione contro il potente presidente della CEI, ma spaventa anche Silvio Berlusconi quando deve far applicare l’ICI alle attività commerciali della Chiesa. Difatti, nel provvedimento sulla “competitività”, compare un misero comma che solleva dal pagamento qualora l’attività commerciale della Chiesa sia solo “parziale”. Un supermercato con una nicchia dedicata alla Vergine può quindi essere considerato un “parziale” luogo di culto (esentasse), a patto che a sentenziarlo sia l’autorità ecclesiastica.
Il Vaticano s.p.a. sa però di dover tessere una costante rete di alleanze: Mediobanca, la potente (e quasi sconosciuta) Famija Piemonteisa (la lobby degli interessi piemontesi nell’Urbe), le banche. Lo fa perché da quell’intreccio – una simbiosi vantaggiosa per la finanza e l’oligarchia industriale – nasce la ragnatela che rende possibile il controllo finanziario del paese.
E siamo da capo. Incurante degli strali che giungono da mezzo mondo, Antonio Fazio continua imperterrito sulla sua via: Berlusconi lo sconfessa, ma invia subito il fido ministro Castelli a dire che nell’attuale ordinamento non ci sono leggi che consentono di rimuovere il Governatore. Della serie: ricordati che ti ho solo sparato a salve. Ci si appella alla BCE per risolvere il problema, perché nello Stivale non ci sono poteri istituzionali in grado d’opporsi alla santa alleanza fra capitali e sacrestie; già Galileo, secoli or sono, chiese aiuto ad Amsterdam contro lo strapotere dei cardinali (e lassù furono pubblicate le sue opere).
S’accodano in processione strani figuri della Lega Nord (gli stessi che tuonavano contro la Chiesa solo pochi anni or sono), giacché intravedono in questa difesa dei baluardi finanziari la diga contro l’irrompere della Cina, la salvezza dall’internazionalizzazione dei mercati, il muro che protegge il “piccolo mondo antico” brianzolo.
Che Fazio sia uomo legato a filo doppio agli ambienti ecclesiali non è un mistero: è lui stesso a farne vanto, ed a tessere la sua strenua difesa è soprattutto l’UDC ed il mondo cattolico più in generale. A più riprese, importanti esponenti del partito di Follini hanno preso le difese del governatore: D’Onofrio afferma che Fazio non ha commesso nessun reato e che quindi non si vede perché se ne dovrebbe andare (come se per sedere a palazzo Koch bastasse essere incensurati!), mentre Tarolli ha distribuito tante, diverse copie di false Finanziarie da provocare le dimissioni di uno stufo Siniscalco (che aveva chiesto la sostituzione del governatore). Mastella – sull’altro versante – “bacchetta” Tremonti per aver umiliato il governatore a Washington.
Perché tanta ostinazione? Poiché Fazio è il garante che la tranquilla provincia bancaria italiana continuerà a rimanere tale: potrà fare il suo ingresso nel Bel Paese anche qualche banca straniera, ma l’impostazione di “cartello” (nel senso di procedure condivise) non cambierà.
Noi italiani siamo così schiavi di questo sistema che non ci rendiamo nemmeno conto dei presupposti sociali che lo reggono: avere accesso al credito significa essere cittadini veramente uguali di fronte alla legge, liberi d’interpretare la realtà in modo creativo e personale. All’opposto, la privazione di risorse per sviluppare la propria creatività porta alla negazione dell’individuo in quanto tale, e lo tiene meramente in vita come soggetto che può solo produrre e consumare a comando: un essere lobotomizzato oppure, se preferite, uno schiavo. La negazione del credito ha quindi sull’essere umano gli stessi effetti della segregazione, giacché costringerà chi è privo di mezzi ad una vita non coerente con le sue potenzialità, che condurrà talvolta a risposte violente.
Il concetto di credito è quindi – socialmente – un’attestazione di stima che impegna moralmente, ben diverso dalla carità che – psicologicamente – può essere recepita in modo umiliante: non prevedendo un rapporto fra soggetti paritari, quest’ultima può portare – soprattutto nel caso dei finanziamenti clientelari – al classico “prendi i soldi e scappa”.
A monte di queste scelte economiche (e, soprattutto, filosofiche) c’è un pensiero che tutto cementa e sorregge: è il pensiero economico cattolico, ben diverso da quello calvinista. Anche se la Democrazia Cristiana ha annoverato nelle sue file esponenti sindacali o, comunque, legati a forme di “Cattolicesimo sociale”, il pensiero di fondo non è mai cambiato.
La concessione del credito come diritto collide prepotentemente con il concetto di carità: laddove inizia il primo (proprio perché diritto) termina il secondo (giacché concessione) umana o divina. Non potendo negare uno dei fondamenti della dottrina, si è semplicemente azzerato ciò che la poteva – intrinsecamente – negare.
Sappiamo che la Riforma condusse a liberare importanti risorse dalle casse dei monasteri, convogliandole nel sorgente artigianato, nella nascente industria, nel commercio. Nel Cristianesimo riformato permane il concetto di carità, ma è affiancato dalla radicata convinzione che il benessere economico è un dono di Dio, e dunque tutti sono autorizzati a promuovere l’impresa che genera profitti.
Un secondo fattore giunse in aiuto all’Europa pre-capitalista: terminato nel ‘500 il co-dominio arabo-spagnolo sull’Andalusia, Isabella la Cattolica cacciò gli ebrei, proibendo agli stessi di possedere proprietà immobiliari.
Gran parte degli ebrei andalusi sciamò in Europa, soprattutto nelle Fiandre, in Germania e nell’est europeo e – non potendo radicarsi con la proprietà immobiliare – per secoli divennero gli alfieri della finanza[10]. Ancora oggi, i più importanti banchieri internazionali sono ebrei.
In Italia ciò non avvenne o in minima parte: accusati di deicidio dall’imperante gerarchia cattolica, gli ebrei furono confinati nei ghetti dove operarono soprattutto come artigiani, e quindi non poterono esercitare l’importante funzione di circolazione del credito, come avvenne invece in tutto il nord Europa.
Proprio quelle aree, seppur sfavorite dalle condizioni climatiche, sono ancora oggi le più ricche d’Europa: i Paesi Bassi, l’area anseatica, la Danimarca, i paesi baltici. Anche la Polonia – nonostante il lungo gelo del socialismo reale – ha nel suo DNA potenzialità ben diverse dall’Italia: cattolici sì, ma lontani da Roma.
Queste considerazioni possono spiegarci perché l’Italia non ha mai avuto un vero stato sociale, un welfare al pari degli altri paesi europei. Si badi bene: non lo ebbe nemmeno in anni lontani, quando il peso del debito pubblico era simile a quello che avevano gli altri paesi europei. In Italia non è mai esistito un vero sussidio di disoccupazione (1.000 euro il mese circa in molti paesi europei), mentre si finanziano lunghissimi e costosissimi periodi di cassa integrazione: perché? L’indennità di disoccupazione sarebbe un diritto, la cassa integrazione viene erogata solo con il placet delle autorità: ancora una volta il cittadino-suddito può attendersi soltanto una forma d’assistenza che nasce dal caleidoscopio della carità, questa volta elargita dallo Stato.
Come si risolvono i problemi assistenziali nel Bel Paese? L’Italia è il regno delle collette: con la parola “solidarietà” si raccolgono fondi per mille diverse iniziative, dalla TV al calcio, dal volontariato alle confraternite assistenziali cattoliche. Su tutto, un imperante ed invasivo concetto di carità, che annulla ed offusca ciò che per un cittadino europeo dovrebbe essere un diritto.
Qualcosa di simile sta avvenendo anche negli Stati Uniti – da sempre sostenitori del credito e del capitale di rischio – e si trova traccia di questo pensiero nel concetto di “assistenzialismo caritatevole” di George W. Bush, nei suoi sempre più assidui legami con i gruppi fondamentalisti americani, con i Battisti, addirittura con gli Amish che non accettano nemmeno il progresso tecnologico.
E’ indubbiamente un segno di forte regressione, che nasce e si sviluppa nella transizione americana verso la fase declinante, il lento cedere lo scettro dell’economia (e del potere) alle economie orientali. Una società vitale non ha bisogno di questi sotterfugi: concede credito e sanzioni con lo stesso vigore.
Quando – invece – inizia la fase di decadenza, il concetto di carità diventa il paravento grazie al quale stemperare e nascondere la paura dei ceti dominanti di perdere il potere economico accumulato.
Noi italiani non abbiamo mai vissuto nulla di queste vicende, sono per noi – popolo di sudditi, e non di cittadini – soltanto saghe di paesi lontani, perché il vento della Riforma s’arrestò alle prime balze prealpine, in Val Pellice.
Che bella storia sarebbe – invece – raccontare di un paese normale, dove se qualcuno ha un’idea si reca in banca e sottopone il piano d’impresa all’attenzione dello staff economico, il quale decide se vale la pena d’investire nell’idea oppure rinunciare, rimanendo però con il timore che una banca concorrente fiuti l’affare e proponga una partecipazione agli utili, una joint venture, un finanziamento. No, purtroppo non accade, perché l’Ufficio Fidi concede sulla base di precise tabelle, che sono a loro volta decise dai Direttori, i quali s’accordano fra banche per “omogeneità” di trattamento, fino ai consigli d’amministrazione degli Istituti, che verificano attentamente che il “trend” sia sempre sotto controllo. I Presidenti e gli Amministratori Delegati – infine – guardano a Roma, dove ci sono Fazio ed il…
L’operazione è perfettamente riuscita: il paziente è morto.
[1] La Cina ha recentemente deciso di ripartire gli investimenti in campo energetico in due settori: nucleare ed eolico, in egual misura. Su 26 aziende che si occupano di tecnologia eolica, ben 25 sono tedesche: si comprende facilmente chi otterrà i finanziamenti cinesi. All’opposto, alla metà degli anni ’70, il Centro Ricerche Fiat di Cambiano (TO) già sperimentava un modello d’aerogeneratore (chiamato Libellula) in Liguria, dal quale non nacque nulla d’operativo. Testimonianza diretta dell’autore.
[2] Alla fine di giugno 2005 le sofferenze al netto delle svalutazioni erano pari a 18,6 miliardi di euro, Fonte: ABI.
[3] Fonte: Capitalia.
[4] Mentre BMW, Honda ed altre case automobilistiche presentano i primi modelli d’auto funzionanti ad idrogeno, negli anni ’70 l’ingegner Massimiliano Longo costruì la prima automobile ad idrogeno perfettamente funzionante, una Alfa Romeo 1300 GT che fu presentata al Salone dell’Automobile di Torino del 1986. Sic stantibus rebus.
[5] “Non concederò capitoli di spesa qualora gli stessi possano essere coperti grazie a finanziamenti europei” Carlo Azeglio Ciampi – Ministro dell’Economia del governo Prodi - 1996
[6] Il numero della tessera P2 di Silvio Berlusconi compare nell’elenco originale sequestrato dagli inquirenti allo stesso Licio Gelli: non si tratta, quindi, di nessuna “manipolazione” a posteriori.
[7] "Con una serie di emendamenti si è cambiato il sistema, spaccando in due la cooperazione e creando quella di "serie A e di serie B" con agevolazioni fiscali solo per la piccola "riserva indiana" e lasciando quella cosiddetta "lucrativa" senza tutela e senza più possibilità di trasformarsi in società di capitali. Se si considera che sono circa otto milioni le persone coinvolte nel mondo della cooperazione, se ne deduce che l'idea base del Governo è che le cooperative sono un escrescenza inutile della società." Dichiarazione del capogruppo della Margherita in Commissione Finanze, Roberto Pinza. Agosto 2001.
[8] “Con questo articolo si rischia poi non solo di dimenticare ed archiviare la grande tradizione cooperativistica laica e cattolica, con una cultura solidaristica che va dalla Rerum Novarum e Toniolo alle cooperative bianche e rosse nella ricostruzione del dopoguerra, ma di insinuare un'idea sempre più individualista e gretta della società, in base alla quale tutto ciò che è solidarietà e mutualità va ridotto e mortificato.” Dichiarazione dell’on. Antonio Rusconi, della Margherita. Agosto 2001.
[9] “E’ un atto grave, senza precedenti, finalizzato a colpire una realtà imprenditoriale che ha dato un grosso contributo allo sviluppo dell’economia italiana in generale, e della nostra regione in particolare, dove la cooperazione è una realtà fatta di 44 mila posti di lavoro, 11 miliardi di fatturato e un milione e mezzo di soci”. Giorgio Bertinelli, presidente della Legacoop toscana, settembre 2001.
[10] Per chi desiderasse approfondire il tema, segnaliamo gli ottimi lavori teatrali dell’attore Moni Ovadia.