Homepage Chi sono Libri pubblicati Attività letteraria Articoli Pubblicati Libri in Pdf Link Posta Blog
Se non intervenisse l’informazione di regime a rimescolare le carte – perché hanno la coda di paglia – sarebbe addirittura noioso commentare la guerra in Libano: potremmo cercare articoli di vent’anni fa che narravano di Beirut, cambiare qualche nome e ripubblicarli.
Invece la protervia infinita di chi non rinuncia a gettare sabbia negli occhi per celare una verità che è lampante stimola, e torna la voglia di scrivere.
Anzitutto l’uso delle parole, che non è casuale.
Tutta la crisi sembrerebbe nata dal rapimento di tre soldati israeliani, uno a Gaza e gli altri due sul confine libanese, ma da quando mondo è mondo i soldati non si rapiscono, si catturano.
I soldati vengono catturati e non rapiti perché i militari sono lì per fare la guerra, non per piantare margherite, ed i soldati israeliani sparano, eccome se sparano: ogni giorno che passa è uno stillicidio di vittime – moltissimi bambini – che entrano nei disastrati ospedali palestinesi, sempre che non siano colpiti anche gli ospedali – come fecero gli americani a Falluja – con la scusa della “lotta al terrorismo”. Niente paura, dopo i misfatti gli israeliani si scusano sempre: sono una nazione “democratica”, ed in “democrazia” il bon ton non deve mancare.
Anche sul numero delle vittime civili la tradizione è rispettata: per difendersi dagli attacchi dei razzi lanciati da Hezbollah – che hanno provocato ad oggi 10 vittime civili in Israele – l’aviazione di Tel Aviv ne ha ammazzate (solo i civili) 200 in Libano. Il classico rapporto di 1 : 20 è rispettato, come nelle peggiori rappresaglie di guerra: almeno, i repubblichini di Salò attuavano un più “modesto” 1 : 10.
Sono state uccise intere famiglie, addirittura una famiglia canadese in visita ai parenti in Libano ed un casco blu indiano, dopo che Tzahal aveva preso di mira anche le forze ONU sul confine. E non si venga a dire che è stato un “errore” colpire due distinti raggruppamenti di caschi blu perché l’esercito israeliano, quando spara, sa bene su chi spara. Tanto, dopo si scusa.
Chi invece rapisce, e non cattura, è proprio Israele, che nei giorni scorsi ha “catturato” tre ministri dell’Autorità Palestinese: attenzione, tutta la stampa usa il termine “catturati”, ma nessuno ha mai sentito parlare della “cattura” di un ministro, semmai del rapimento, perché i ministri non sono dei combattenti.
Quindi, se vogliamo osservare con freddezza gli eventi, chi si è macchiato per primo del crimine di rapimento non sono gli Hezbollah, ma Israele: tanto per farlo sapere alla gran parte della politica italiana, che non perde occasione per genuflettersi in direzione di Tel Aviv.
Veniamo allora alla presenza di Hezbollah in Libano, ed alla richiesta d’attuazione della risoluzione 1559 dell’ONU che chiede proprio il disarmo delle milizie islamiche nel Paese dei Cedri. La richiesta è corretta, giacché proviene proprio dal Palazzo di Vetro; domandiamoci: perché Hezbollah è in Libano?
Inutile raccontare frottole: Hezbollah è un’emanazione di Teheran, che è lì per attuare un piano che dovrebbe condurre l’Iran a diventare il nuovo stato “guida” del Medio Oriente, sostituendo la muta Arabia Saudita ed il balbettante Egitto.
La ragione della presenza di Hezbollah, anche se strumentale, è pur sempre l’occupazione militare da parte di Israele dei territori conquistati con una guerra d’aggressione nel 1967, in aperto spregio della legalità internazionale.
Già, affermano i nuovi amici d’Israele – Fini in testa, che dell’antisemitismo dovrebbe saperne qualcosa – ma la risoluzione 1559 deve essere attuata, punto e basta. Giusto, ma allora attuiamo tutte le risoluzioni ONU e facciamola finita.
L’ONU attende ancora che sia attuata la risoluzione 338. Cosa raccontava la risoluzione 338 del 1973?
La risoluzione 338 fu emanata dall’ONU subito dopo la guerra di Yom Kippur e – cosa strana – richiamava l’applicazione di un’altra risoluzione – la numero 242 – che evidentemente gli israeliani avevano dimenticato: chissà perché questo vuoto di memoria…
La risoluzione 242 fu emanata dall’ONU all’indomani delle Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele decise d’annettersi unilateralmente i territori occupati.
Un preziosismo lessicale agghindava il primo punto della risoluzione, laddove si affermava che la pace in Medio Oriente “dovrebbe includere entrambi questi principi”. Un condizionale, un semplice condizionale richiesto dagli USA per approvare la risoluzione ci ha regalato decenni di guerra e decine di migliaia di morti.
Un condizionale che appare invece superato dalla risoluzione 338 (successiva), poiché lo stesso Consiglio di Sicurezza (evidentemente conscio dei rischi che la situazione conteneva in sé) s’affrettava a ricordare ciò che Israele doveva attuare, ossia: “immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.”. La risoluzione doveva essere applicata in tutti i suoi punti, ovvero dovevano essere restituiti il Sinai e Gaza all’Egitto e la Cisgiordania alla Giordania.
Chi è, allora, che non rispetta le risoluzioni ONU?
Perché Tel Aviv è così ostinatamente aggrappata ad un territorio arido, per difendere il quale spende di più di quel che ricava dalle colonie, insomma, un non sense apocalittico?
Ci sono due ragioni che concorrono alla non soluzione del problema palestinese: la prima è di carattere economico, la seconda dottrinale.
La ragione economica è semplicissima: con lo status di “territori occupati” (non contemplato nel diritto internazionale. se non per brevissimi periodi che preludono ad un accordo di pace) Israele si è assicurata manodopera a bassissimo costo per le sue industrie e per il terziario dove non occorre specializzazione.
Migliaia di operai palestinesi varcano ogni giorno i valichi di frontiera per andare a lavorare in Israele, dove sono pagati un’inezia (in confronto alla manodopera israeliana): in aggiunta – essendo manodopera frontaliera – lo stato ebraico non deve provvedere agli oneri sociali ed al welfare per quei lavoratori. Che si arrangino i palestinesi.
E’ pur vero che ci sono delle compensazioni economiche che Israele deve versare alle casse palestinesi per questo “strano” caso di lavoratori stranieri che ogni giorno mandano avanti le industrie e l’agricoltura israeliana, ma recentemente Tel Aviv ha smesso semplicemente di versare quei fondi, affamando Gaza.
L’irrazionalità totale dell’impianto risiede proprio nel fatto che i lavoratori palestinesi – non essendo israeliani e nemmeno stranieri, perché non hanno uno stato d’appartenenza – non hanno status, o forse l’unico status giuridico che è possibile assegnare loro è quello di schiavi o di apolidi.
Le ragioni dottrinali affondano le loro radici nel Pentateuco:
Queste sono le ragioni che inducono gran parte degli israeliani a credere che i loro confini orientali dovrebbero estendersi ancora, altro che abbandonare il West Bank.
Anche se altri profeti – ad esempio Ezechiele – affermano che il confine orientale della terra concessa da Dio al popolo eletto si ferma al Giordano, sembra che sia tenuto in maggior conto quel che è scritto nel Deuteronomio. Chissà perché.
E poi ci vengono a raccontare che l’Iran è uno stato fondamentalista.