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Caro Pierpaolo,
sono trascorsi molti anni da quella sera del 1975, quando ci lasciasti soli, improvvisamente, come una cometa che scompare negli abissi dello spazio.
Io, questo spazio l’ho di fronte a me e fisso una stellina che m’occhieggia fra le fronde dell’olivo. L’olivo che ha preso il posto dei vari ciliegi selvatici arrostiti dall’arsura estiva, i quali avevano preso il posto della gaggia orientale, quasi secolare, che c’era quand’ero bambino.
Mi chiedo dove tu sia. Non importa: tanto, sei stato un intellettuale mai sopportato dagli intellettuali, un poeta mai compreso dai poeti, un politico trattato ad alzate di spalle, un omosessuale mai omologato fra gli omosessuali. Sei stato un vero jolly, Pierpaolo, e per questa ragione non devi meravigliarti se sei passato come una meteora. Che, però, ha colpito.
Sono trascorsi tanti anni da Valle Giulia, eppure ancora se ne parla, si discute, la si legge e si disserta. Sempre con il solito andazzo: chi solleva le spalle, chi scrive un’inutile critica postuma, chi la esalta, chi non sa e si ferma a guardare la stella, come sto facendo in questo momento.
Gli eroi lasciano questo mondo correndo su un carro di fuoco. Forse un’Alfa rossa. Perché lo lasciano? Forse perché questo mondo non ha più necessità delle loro rime, dei loro aghi piantati a cucire il cielo plumbeo di una realtà selvaggia, invadente e sozza come una lanca sul limitare della borgata.
Sapessi, Pierpaolo, cosa ci stanno raccontando: che le ideologie sono merda, perché uniformare e strutturare il pensiero in una costruzione logica – che ha dunque struttura, forse rigidità – è cosa grama, da mestatori della psiche indegna d’esser avvisa.
Ci propongono, invece, un pensiero così debole da schiantarsi ad ogni angolo del nostro vivere, così mellifluo ed impalpabile da scorrere senza tempo e senza sapore sui palati televisivi, della carta stampata, nei balli a palchetto della politica strapazzata come due povere uova cadute dal cesto. Fino a pervadere il palcoscenico delle menti, che – attonite – s’inchinano di fronte a tanto potere dell’insipienza.
E le madri, chiamate a correo di tanto, terrifico clamore?
Non so, Pierpaolo, se le tue madri siano state così colpevoli: m’inchino, rispetto la tua intuizione ma non la comprendo. E, dunque, m’arresto.
Posso dirti, però, che i padri non si mostrano più, come se la caduta delle tue madri – angeli ribelli, fuoriuscite dai cascinali dov’erano schiave del sesso e dei campi – avesse chiesto contrappasso e nemesi alla Storia. Che, talvolta, ci rifiutiamo di vivere.
Il teatrino che ci mostrano è così mesto che non vale la pena d’insozzare la tua mente – chissà cos’è divenuta, nel frattempo – con il racconto delle nostre triste cronache: risparmiamo il clamore del nulla.
Vorremmo però salutarti senza nessun ardore di speranza, senza obliare né nascondere il nichilismo – al quale tu non hai mai ceduto, lo sappiamo – per dileggiarti con un dolce canto al quale, tu, voleresti la maschera come un bambino scoppia una bolla di sapone.
Troppo tempo è trascorso, inutilmente, senza trovare sentiero e ragione, né metter pace negli animi lacerati ma vivi. Troppo tempo scivolato senza senso, senza corpo, senza ragione. Vorremmo dirti per approdare ad un nuovo tempo, ma non scorgiamo che nuvole all’orizzonte, e la luna tarda a mostrarsi in cielo.