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...di tutto il mondo: unitevi!
“Essenza, benzina o gasolina,
soltanto un litro: in cambio ti do Cristina.
Se vuoi la chiudo pure in monastero,
ma dammi un litro d’oro nero!”
Rino Gaetano – Spendi spandi effendi – 1977
Negli ultimi anni gli analisti economici internazionali attendono il crollo dell’economia mondiale, poiché la situazione economica della maggior potenza mondiale – gli USA – è prossima alla bancarotta: complesse alchimie finanziarie cercano di coprire ciò che oramai non è più possibile nascondere (a meno d’essere degli assidui fan dell’informazione di regime).
Con simili abissi di debiti – che comprendono il saldo con l’estero, il deficit di bilancio statale e l’indebitamento delle famiglie – non si tratta di stabilire “se” avverrà, ma “quando” avverrà. Insomma, il re è nudo ed oramai sono in tanti a gridarlo.
I recenti, violenti squilibri fra le monete e l’oro indicano non più il nervosismo del mercato, bensì una fase oramai parossistica, da “esaurimento nervoso” dell’economia internazionale.
In questo contesto, viene spesso incolpato l’alto costo dell’energia quale fattore che catalizza il disfattismo dei mercati, la loro “volatilità” e l’altalena delle borse.
Su questo primo aspetto ci sarebbe molto da approfondire, poiché – se per l’Europa e per gli USA il petrolio è veramente un freno economico – non sembra essere lo stesso spauracchio per la Cina. I cinesi vagano per il pianeta assicurandosi stock di petrolio a suon di dollari (ossia scambiando della carta) e non badano a spese: certo, meglio avere petrolio per far funzionare l’apparato produttivo che rettangoli verdi di dubbio valore.
Se Cina e Russia hanno oramai i forzieri colmi di dollari – circa 1.100 miliardi di dollari in biglietti verdi – altri hanno invece qualcosa che non teme le avventure monetarie e le acrobazie finanziarie, ossia le operazioni di “salvataggio” mediante le quali il governatore della FED Bernanke cerca di difendere latte e corn flake per milioni di prime colazioni – i pasti degli americani – anche per dopodomani.
1.100 miliardi di dollari sono un bel gruzzolo, niente da dire: grosso modo l’intero PIL italiano. C’è però qualcuno che li considera una miseria e punta più in alto, dove nessuna acrobazia finanziaria può arrivare.
Sappiamo che il mercato dell’energia è il più esteso del pianeta: considerando che il consumo energetico mondiale assomma a circa 10 miliardi di TEP[1] – e che il 65% dell’energia proviene da petrolio e gas – al prezzo di 70 dollari/barile il mercato di petrolio e gas vale all’incirca 3250 miliardi di dollari l’anno.
Ovviamente non tutta l’energia proviene dal petrolio, ma anche il gas – in quanto a prezzi – non scherza: considerando che produce – a parità d’energia prodotta – circa il 30% in meno d’anidride carbonica, il suo uso è molto gradito da chi deve mantenersi all’interno dei limiti imposti dal Protocollo di Kyoto.
Si comprende allora facilmente come la Russia sia riuscita in pochi anni a pagare l’intero debito estero ricevuto in eredità dall’URSS ed a raggranellare forzieri di dollari nelle casse dello Stato: per farlo ha dovuto dissotterrare il fantasma di Stalin e spedire gli ex oligarchi dell’energia in “vacanza” in Siberia, ma non andiamo troppo per il sottile, oggi non sono più comunisti. Lo erano allora? Sono tornati ad esserlo sotto mentite spoglie? Non lo sono mai stati? Chi ha tempo da perdere può divertirsi con questi divertenti sillogismi.
Forse qualcuno storce il naso per le non proprio “limpide” democrazie russa e cinese ma, suvvia – pecunia non olet – e, compiendo una profonda genuflessione di fronte al rubinetto del metano che abbiamo sul balcone, possiamo anche trascurare qualche dimenticato miliardario che conta lo scorrere dei tramonti in un carcere siberiano. Mica sovietico eh? Russo, non scherziamo.
Quei 3.250 miliardi di dollari sono la cifra che ricevono ogni anno che passa Russia, Arabia Saudita, Venezuela…e tutta l’allegra brigata del petrolio e del gas.
Sappiamo che le riserve non sono infinite, e possiamo anche ipotizzare quanto dureranno ancora: agli attuali ritmi d’estrazione avremo ancora pressappoco 40 anni di petrolio e 60 di gas. Per ora non consideriamo il carbone, poiché se dovessimo trasformare i 200 anni d’estrazione che ancora rimangono in energia faremmo prima a cacciarci direttamente il tubo di scappamento in bocca. Se non altro, si soffrirebbe di meno.
Facendo una media empirica fra i due più importanti combustibili fossili possiamo affermare che ne avremo ancora per circa 50 anni: chi ha meno di quarant’anni può iniziare a preoccuparsi.
La “torta” dell’energia – ossia la ripartizione dell’energia per fonti (a grandi linee) – è semplicissima: 5% cadauno per l’idroelettrico ed il nucleare, 25% ciascuno per carbone e gas ed il restante 40% al re petrolio. Se avanza qualche decimale possiamo assegnarlo alle energie rinnovabili, che nell’attuale panorama non contano praticamente niente.
Quei 3.250 miliardi di dollari l’anno, per cinquant’anni di futura estrazione, fanno la bella cifretta di 162.500 miliardi di dollari. Per mettere insieme 162.500 miliardi di dollari i cinesi devono lavorare per circa 20 anni, gli americani circa 15, ma per gli americani non c’è problema: ci pensa papà Bernanke a stampare dollari (di carta) per comprare petrolio (vero) che serve per riscaldarsi e viaggiare in automobile, mentre con la carta si va poco lontano. Finché dura la cuccagna. E, attenzione: lavorare tutto quel tempo solo per pagare l’energia.
Qualunque sia il nostro orientamento politico, di quella bella cifretta non riusciamo nemmeno ad individuare una corrispondenza in beni: 325 milioni d’appartamenti a Manhattan? 3 milioni di caccia F-16 o Su-27? 15.000 portaerei? Niente da fare, sono cifre da capogiro.
Anche il carbone – però – fa la sua parte, ed il 25% dell’energia prodotta nel pianeta viene ricavata dal carbon fossile: circa 3.500 milioni di tonnellate di carbone sono bruciate ogni anno nelle centrali termoelettriche per produrre energia[2].
Il carbone costa assai di meno del petrolio: se una tonnellata di petrolio costa circa 500$, per il carbone ne basta circa la metà, ossia 250$, comprendendo anche le cosiddette “carbon tax” per l’alto inquinamento che comporta l’uso di questa fonte.
Agli attuali ritmi di consumo, quanto carbone c’è nel pianeta?
In questa previsione non possiamo essere molto precisi, giacché il termine carbon fossile comprende una panoplia di prodotti assai diversi: si va dalle più pregiate antraciti (8.000-9-000 Kcal/Kg) alle meno pregiate ligniti (5.000 Kcal/Kg) – passando per parecchie categorie intermedie – mentre il petrolio ha un potere calorifico di circa 10.000 Kcal/Kg.
Insomma, il carbone ha una resa minore e costi d’estrazione maggiori, ma agli attuali ritmi ne rimane ancora per 200 anni: due secoli di locomotive a vapore? Se lo facessimo, sarebbe la condanna alla camera a gas planetaria.
Ciò nonostante, il carbone è una potenziale risorsa energetica. Se il consumo annuo è di circa 3.500 milioni di tonnellate e ne rimane per 200 anni, le riserva ammontano a 700.000 milioni di tonnellate, che al prezzo medio attuale corrispondono ad altri 175.000 miliardi di dollari: aggiunti ai 162.500 di petrolio e gas portano il valore delle riserve di fossili alla iperbolica cifra di 337.500 miliardi di dollari.
Per produrre ricchezza pari a 337.500 miliardi di dollari i cinesi dovrebbero lavorare forse per mezzo secolo, solo per l’energia, gli USA 30 anni: questa è l’importanza delle riserve strategiche d’energia. Con una simile cifra potreste comprarvi una portaerei a testa per voi ed i vostri figli, parenti ed amici ed usarla per le vacanze, cambiandola ogni anno per un centinaio di generazioni. Preferite acquistare in blocco l’Italia? Che so io…qualche migliaio di Louvre…mah, fate voi…
Inutile andare a cercare il pelo nell’uovo in questi calcoli, poiché i conti si fanno agli attuali prezzi dell’energia e con i consumi di oggi: domani il conteggio potrebbe essere ancora diverso; d’altro canto, domani un appartamento a Manhattan od un caccia F-16 potrebbe costare di più o di meno, chi lo sa?
Già, domani tutto potrebbe costare un po’ di più od un po’ di meno: un appartamento – a causa della speculazione – potrebbe valere 700.000 dollari invece che 500.000, mentre i caccia – se scoppiassero delle guerre (e alla Mac Donnell Douglas pregano, oh quanto pregano…) – potrebbero salire di prezzo.
Se, però, pagassimo caccia ed appartamenti in euro risparmieremmo, poiché con un rapporto di cambio pari a circa 1,25 a favore dell’euro[3] risparmieremmo circa un quarto della somma. Già, però anche i rapporti di cambio mutano – panta rei – e non sappiamo oggi se ci conviene buttare dollari ed acquistare euro, per poi cambiare gli euro per gli yen, poi yuan, rupie, rubli…insomma, basta! Compro dell’oro e non se ne parla più: già, ma se l’economia cresce tutti vendono oro per acquistare liquidità da investire per fare altri soldi, ed il prezzo dell’oro scende.
Maledizione a chi ha inventato questo perfido Monopoli! Almeno – nel gioco – chi ha il Parco della Vittoria sa che qualcuno da “spennare” prima o dopo ci casca!
Il “Parco della Vittoria” attuale – nel quale tutti dobbiamo forzatamente passare – si chiama ENERGIA.
Nel preciso istante nel quale abbiamo premuto sul pulsante d’accensione del computer per leggere questo articolo, siamo entrati nel “Parco della Vittoria” dell’economia planetaria: la stessa cosa avviene quando ruotiamo la chiavetta d’accensione dell’automobile oppure cuciniamo un uovo al tegamino. Niente da fare: appena usiamo dell’energia siamo dentro al perfido quadratino del Monopoli e c’è qualcuno che sogghigna, che attende d’incassare. «Spendi spandi, spandi spendi effendi!» cantava uno splendido Rino Gaetano in anni lontani.
Ovviamente non incassano solo i barbuti efendiah in caffettano, ma i caudillo venezuelani, i compassati sov…pardon…russi e poi norvegesi, nigeriani ed indonesiani…man mano che però si scende nella “scala” d’importanza di quei paesi cambia la ripartizione della torta fra governi e holding dell’energia, e questo è un altro aspetto del problema.
Se, invece, qualcuno vuole tenersi il prezioso conto in banca dei propri giacimenti e sfruttarlo poco – affinché duri per molti decenni – avrà di che vivere senza problemi per molte generazioni. Il prezzo, estraendo poco, salirà, ma questi sono problemi dei paesi consumatori, mica di chi costruisce moschee sui laghi di petrolio. Proprio per entrare in punta di piedi in questo ovattato mondo – dalle moquette delle banche svizzere ai cuscini degli harem di Ryad – lo faremo in modo discreto, con una favola, così come le “Mille e una notte” hanno cercato di raccontare l’epoca aurea dei grandi califfati.
Il buon sovrano di Petrolahbad
C’erano una volta due paesi che avevano tanto petrolio, tantissimo: potevano farci il bagnetto ogni mattina oppure decidere di correre in auto tutto il giorno spendendo un’inezia.
Un bel giorno, uno dei due paesi decise di vendere grandi quantità del suo petrolio ai commercianti di lontani paesi: il buon re era sensibile alle richieste delle sue molte mogli, che desideravano sempre – nella penombra dell’harem – vestire Valentino e profumarsi con Chanel n. 5. Non c’era bisogno di copiare i modelli politici di quei lontani commercianti – parlamenti, governi, presidenti – perché erano inutili: su tutti regnava il buon re Saud ed i sudditi festanti plaudivano alla sua saggezza ed al suo buon cuore.
Purtroppo, nel paese accanto regnavano oscuri individui, avidi, gretti, ombrosi: agitavano molto le spade e poco il Corano, affermavano che tutti dovevano lavorare ed avere un reddito – sancendolo come un diritto – ed estraevano poco petrolio, quel tanto che basta per mandare avanti la baracca.
Un bruttissimo giorno, un certo Hussein – capo della masnada dei miscredenti – iniziò ad acquistare tante armi perché meditava di diventare il nuovo Saladino, colui che avrebbe unificato sotto un solo stendardo tutte le popolazioni di Petrolahbad.
I commercianti stranieri giunsero dal buon re e lo pregarono d’aiutarli a scongiurare quel pericolo: se il feroce Saladino fosse divenuto il supremo Califfo di Petrolhabad, avrebbe “stretto” i rubinetti del petrolio e le sue belle mogli sarebbero state costrette ad acquistare i profumi nel discount sotto casa…pardon…sotto la reggia.
Detto fatto: furono tagliate le ali al feroce Saladino ed il buon re accondiscese con grazia a pagare i buoni commercianti che avevano provveduto – inviando aerei, navi e soldati – a salvare le carte di credito delle sue belle mogli.
Il buon re era miope e forse non s’accorse – quando firmò il contratto – della cifra: si sa che gli zeri non contan nulla, ma se seguono una cifra qualsiasi assumono valore; meraviglie della matematica, ma il buon re era più avvezzo ai versi dei poeti che alle aride cifre.
Fu così che, per pagare i commercianti stranieri che lo avevano difeso, dovette estrarre ancor più petrolio e svuotare le casse dello stato: la notte tornava nell’harem e nel vedere le belle mogli coperte d’oro e profumate con grazia sospirava: sì, ho fatto la scelta giusta, Allah mi sarà benigno.
Anche le buone famiglie, però, covano sempre una serpe in seno: chi non ricorda nelle proprie ascendenze un lontano zio nullafacente od una bisnonna che amava solo il ballo ed i divertimenti?
Era stato tutto inutile: aveva inviato quel figlio di lontani cugini a studiare in Europa, gli aveva acquistato casse d’ottime vesti, camicie all’ultima moda occidentale, auto di lusso ma niente: il giovane Bin voleva fare affari come i commercianti occidentali, era quasi diventato come uno di loro, avido, interessato più ai numeri che ai versi dei poeti.
Non si faceva problemi ad accusare il buon re di sperperare la ricchezza della nazione estraendo tanto, troppo petrolio, che così costava poco e gli unici ad arricchirsi erano i facoltosi commercianti occidentali.
Per toglierselo di torno gli proposero una vacanza premio, un viaggio d’istruzione in Afghanistan, per imparare dagli imam locali come doveva comportarsi un vero musulmano. Non l’avessero mai fatto! Anche il giovane Bin meditò di diventare un Saladino e – dopo aver vinto importanti battaglie contro gli infedeli del Nord – giunse a pretendere il suo stesso trono, mogli comprese!
Ancora una volta giunsero in aiuto i fedeli commercianti occidentali – che avevano tentato d’accoglierlo nel loro grande suk – e che, in lacrime, confessarono al buon re d’essere stati traditi dal suo giovane nipote.
Per fortuna i buoni commercianti avevano tante navi ed aerei per sconfiggere i due maligni Saladini, quello che da Baghdad continuava a blaterare proclami insulsi ed il nuovo, giovane virgulto della stirpe dei condottieri.
Cosa chiesero in cambio i buoni commercianti? Di poter estrarre anche il petrolio del vicino paese, così anche le mogli dei visir di Bassora, Falluja, Nassirya, Kirkuk e Mosul avrebbero ricevuto abiti e profumi in quantità.
Al buon re la proposta sembrò accettabile, conveniente: in fondo era l’unica praticabile, e quello fu il volere di Allah.
Morale della favola
Le riserve di petrolio dei due paesi – Arabia Saudita ed Iraq – erano così valutate nel 2002, prima della guerra irachena:
Paese |
Stima delle riserve (miliardi di barili) |
Produzione annua (milioni di barili) |
Anni di futura estrazione ai ritmi dell’epoca |
Arabia Saudita |
260 |
2.589 |
100 |
Iraq |
115 |
776 |
148 |
Come si può notare, gli iracheni erano più “parchi” nell’aprire i rubinetti del petrolio e, a lunga scadenza, sarebbero rimasti con ancora petrolio nei giacimenti quando quelli sauditi sarebbero terminati.
Qui inizia il “giallo” delle riserve petrolifere irachene, perché l’IEA (International Energy Agency) lancia un segnale:
“Il vero potenziale dell’Iraq potrebbe essere molto elevato, in quanto il paese è relativamente inesplorato a causa di anni di guerre e sanzioni dell’ONU, in particolare la regione del deserto occidentale potrebbe contenere ulteriori risorse, forse altri 100 miliardi di barili” [4].
Il “giallo” è tale perché altre fonti indicano che la stima iniziale di 115 miliardi di barili era molto, molto prudente e che le reali riserve erano di circa 220 miliardi di barili.
C’è molta “confusione sotto il cielo”, ma restiamo con i piedi per terra e contempliamo soltanto le riserve veramente accertate (115) più quelle molto probabili – che si trovano nel deserto fra Nassirya ed il confine siriano (ahi, la missione italiana di “pace”!) – ed arriviamo a circa 215 miliardi di barili.
Ai prezzi attuali, le riserve irachene valgono 15.050 miliardi di dollari, circa il 9% del totale mondiale: si può mobilitare il più potente esercito del mondo per il 9% del petrolio del pianeta? Sì, si può, si può…anzi, forse si deve.
Si può e si deve perché quel petrolio rappresenta – in valore – più di un anno di PIL USA!
E qui viene il bello.
Oro, dollari, euro, conchiglie, caccia, palazzi…cosa compro?
Finché si tratta di comprare qualche cisterna di Chanel n. 5 non è il caso di preoccuparsi troppo, ma quando – dopo aver acquistato i palazzi della nobiltà francese e partecipazioni azionarie a iosa – non si sa più dove cacciare i soldi è un bel problema. Noi (sic!) lo sappiamo bene.
Il grave problema che si trovano a dover risolvere i buoni sudditi di Petrolhabad è cosa acquistare in cambio del petrolio: valuta? No, già con i dollari abbiamo fatto un cattivo affare: sempre più carta e meno valore, bisogna cambiare rotta. Gli euro? E se facessero anch’essi la fine del dollaro? Ferraglia militare? No, dopo trent’anni è da buttare, se non ci pensano gli stessi “buoni commercianti” a bombardare tutto.
Niente, non c’è niente che vale di più di quel liquido oleoso e puzzolente che sgorga dalla sabbia, perché è l’unica pietra filosofale in grado di trasformare i minerali grezzi in metalli, il metallo in navi, le navi in commercio, il commercio in altra ricchezza.
Già, però non si può conservarlo perché – a differenza dell’oro – l’oro nero serve a tutti ed ogni giorno. Che fare?
Intanto s’inizia con il mantenere bassa la produzione, ossia non si seguono i desideri dei “buoni commercianti”, i quali – dato l’aumento della richiesta di petrolio di Cina ed India – vorrebbero nuovi pozzi, oleodotti, raffinerie, ecc.
Se la produzione rimane costante od aumenta di poco, il prezzo sale: saranno pure dollari svalutati, ma sono pur sempre – a parità di barili estratti – sette volte quelli che a Petrolhabad s’incassavano soltanto sei anni or sono.
In definitiva – se consideriamo che l’energia è un bene indispensabile che poche nazioni gestiscono in un regime d’oligopolio – i prezzi non sono saliti: siccome si tratta di beni presenti nel pianeta in quantità finite (proprio come l’oro), i combustibili fossili interpretano – al variare del prezzo – il rapporto fra chi fornisce l’energia e chi la consuma per produrre beni.
Chi possiede un giacimento petrolifero sa con certezza di possedere un bene fruibile e fortemente ambito: finché il dollaro rappresentava una moneta sicura – prima che fosse abolita la convertibilità in oro, ed anche dopo, quando ancora rappresentava una certezza per la solidità del sistema finanziario USA – il prezzo aveva oscillato di poco, sempre (salvo brevissimi periodi) fra i 10 ed i 20 dollari/barile.
Gli alti prezzi raccontano allora un’altra vicenda: la disperazione di possedere il bene più ambito nel pianeta e di doverlo scambiare – ogni giorno che passa – con monete che, in definitiva, rappresentano soltanto un puro valore d’imputazione, un “ci credo” collettivo. Finché dura.
In questa situazione – già molto critica – si sono andate ad impiantare le guerre USA, con il timore che i patrimoni esteri dei paesi produttori possano essere “congelati” dall’oggi al domani nel nome della “guerra al terrorismo” (vedi Iran).
Come se ne esce? Sotto l’aspetto della teoria economica è assai difficile trovare soluzioni: secoli di dibattiti sul valore dei beni – da Ricardo a Marx, e da Keynes a Galbraith – non hanno fornito risposte per assegnare un valore alle merci senza interpretarlo mediante un “metro”, sia esso l’oro e, oggi, il petrolio.
Un maggior uso delle energie rinnovabili condurrebbe a “spalmare” su più soggetti il privilegio di possedere il “metro” mediante il quale si può misurare – e condizionare – l’economia mondiale, ma non sarebbe una soluzione poiché continuerebbero ad esistere i “Parchi della Vittoria”: se esistono simili paradisi, non dimentichiamo che gran parte della popolazione del pianeta vive nel Vicolo Corto e nel Vicolo Stretto.
Il vero problema è allora una nuova coscienza della ricchezza e del suo uso – per arricchire pochi oppure per fini di promozione sociale paritaria, fra tutti gli abitanti della Terra – ma questo è un altro discorso: io, per prima cosa, ho gettato il Monopoli nella spazzatura.
[1] TEP: Tonnellata Equivalente di Petrolio, ossia l’energia contenuta – in media – in una tonnellata di petrolio, qualunque sia la fonte energetica.
[2] Considerando il minor potere calorifico del carbone rispetto al petrolio, 7000 Kcal/Kg (una media molto approssimativa) contro le circa 10.000 del petrolio.
[3] A volte mi spaventa essere così previdente: nel 2003 – quando scrissi Europa svegliati! – affermai che il cambio euro/dollaro si sarebbe stabilizzato intorno ad 1,25 a favore dell’euro, mentre il cambio – a quel tempo – era di 0,90 a favore del dollaro.
[4] Fonte: International Energy Outlook 2004.