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“Siamo circondati da immagini consumate, e ce ne meritiamo di nuove.”
Werner Herzog
Sovente, nell’osservare la drammatica rovina del Partito Democratico (8 punti in meno rispetto al risultato elettorale), ci siamo chiesti quale sia l’utilità politica di Piero Fassino.
La parallela domanda, che spesso aleggia più come battuta che come serio dilemma scientifico, sembra in simmetria con l’utilità della zanzara. Molti comici l’hanno sfruttata, giungendo a chiedersi il senso della sua esistenza.
Non ho una risposta scientifica da offrire, e nemmeno la cerco, perché ci sarà senz’altro: “distribuendo” dosi di sangue da un animale all’altro, ad esempio, la zanzara coopererà anch’essa alla selezione. Ce ne saranno senza dubbio delle altre, riguardanti specifiche nicchie ecologiche.
Su Piero Fassino, invece, per quanto mi scervelli non riesco a trovarne una che soddisfi: D’Alema sarà il più furbo, Parisi il più rompicoglioni, Rutelli il più voltagabbana. Almeno, si riesce a trovare un aggettivo.
La tristezza di uno scrittore nasce quando non riesce a trovare aggettivi poiché, nel costruire una frase, se i sostantivi ed i verbi rappresentano il tratto a matita originario sulla tela, gli aggettivi sono il colore. Senza aggettivi, non potremmo scrivere: sarà per questa ragione che pochi s’interessano a Piero Fassino?
Il problema è che, quando s’inizia a scrivere qualcosa su Fassino, nella Gestalt della mente svanisce il colore: ogni tratto appare diafano, come se la tavolozza fosse inutilizzabile e rimanesse il solo carboncino. Essenziale – va beh, direte voi – ma Michelangelo, con il carboncino, sarebbe riuscito al più a tratteggiare un girone infernale, mica la Sistina!
Sicché, il povero Travèt torinese rimane spesso ai margini, poiché emana un alone in gradazioni di grigio: non è azzardato immaginare l’Insetto – avvertito del suo arrivo – chiedere agli scenografi d’improvvisare qualche spruzzo di colore…che so…d’invitare una bella ragazza in giallo/rosso e calze verdi, oppure indossa egli stesso una cravatta sgargiante. Altrimenti, lo scarno studio di “Porta a porta” si trasfigura in un’asettica camera operatoria per tracimare infine, quando il nostro Pierrot inizia a parlare, in una sala autoptica. L’umore degli ascoltatori precipita, e l’audience va a farsi benedire.
Riconosciamo che non è del tutto colpa sua: il grigiore dei casermoni FIAT, unito al nero dello Juvarra, non devono aver certo aiutato il piccolo Piero – infante e giovanetto – nel suo avvicinarsi al colore. Anche quando lo riprendono, nel suo studio per un’intervista, compaiono dietro l’enorme camiciona bianca sfilze di libri dai colori neutri. Al massimo, qualche copertina color ocra: questo, però, avviene solo quando è in vena d’appassionate esternazioni.
Sicché, nel mondo oramai tridimensionale dell’immagine a tutto tondo e delle animazioni fantasmagoriche, tale fenomeno, nitidamente antistorico, rende il Fassin da Torino una sorta di dinosauro mai contabilizzato dai paleontologi, e ci sovviene il dubbio che quando passerà a miglior vita – il più tardi possibile, ovviamente – prenderà nuova incarnazione in tal senso. Dopo il mostro del Loch Ness, quello del Lago d’Avigliana.
I politologi s’arruffano per comprendere l’amara ruina del Partito Democratico – che, da sola, conta milioni di cause, più le sottospecie – ma nel caso di Fassino basta il vecchio responso che ogni gineceo ben conosce: lo specchio. Potremmo consigliare di registrare i suoi interventi televisivi e d’osservarli, successivamente, con sguardo critico: l’umore non ci guadagnerebbe di certo, ma la consapevolezza sì.
Conscio del pericolo d’esser scritturato da ameni registi hollywoodiani per ruoli improponibili – film muti, tragedie in bianco e nero, pubblicità con “sconti famiglia” per le aziende di pompe funebri – quando ha saputo che Herzog s’interessava a lui per rimpiazzare l’estinto Klaus Kinski, ha valicato il Rubicone e s’è tinto d’azzurro.
Non vorremmo, qui, che qualcuno azzardasse un’improvvisa conversione a Forza Italia – regno dell’azzurro – poiché d’altro si tratta: il casermone berlusconiano, per il monachello torinese, è luogo troppo chiassoso.
Abbiamo scoperto per caso la vicenda, il suo viraggio ad uno stinto azzurro, cliccando semplicemente su un collegamento web. E ne siamo rimasti stupiti; non per la faccenda in sé: per il colore, ovviamente.
Piero Fassino (insieme a Furio Colombo ed Emanuele Fiano) è il fondatore di “Sinistra per Israele”[1], sorta nel 2005 dalle ceneri di una precedente associazione, nata subito dopo la guerra dei Sei Giorni (1967) per “spiegare” (!) alla sinistra italiana le ragioni d’Israele. Così, Pierrot, con aureola azzurra a sei punte e kippà sulla crapa, è il cantore, l’aedo che vaga spillando dal suo striminzito torace canzoni yiddish per la gloria di Tzahal. Il suo talento è pari a quello di Assurancetourix, il quale allieta le notti del placido villaggio di Asterix, e finisce per prendere sempre una mano di botte. Qualcosa li accomuna.
Leggiamo, sempre sul sito di “Sinistra per Israele”, che la loro proposta per la Palestina è quella, trita e ritrita, dei “due popoli e due stati”, che non ha mai generato nient’altro che due, distinti focolai d’odio. In seconda battuta, si cita anche la “Road Map”, vale a dire la proposta di quella banda d’ubriaconi sessuofobi che hanno regnato per due presidenze USA, i neocon.
Dietro a questo paravento, baluginano ombre che narrano di tentativi svaniti all’ultimo istante, di “buonevoglie” amareggiate, d’omicidi giunti – sventure che il Fato distribuisce ai mortali – per seppellire i loro volonterosi tentativi. Come “l’assassinio” di Rabin e la “malattia” di Arafat.
Questo è il modo per presentare la vulgata del cosiddetto “processo di pace”, al quale Pierrot non si sottrae: ipnotizzato? Incapace d’elaborazione? Connivente? Agnostico? Ecco, l’eterna difficoltà di trovare aggettivi per dipingere Piero Fassino!
Se, invece, vogliamo partire dagli atti, allora il panorama si rischiara per mostrare una landa infinita, sconsolatamente deserta.
Non c’è un solo impegno ufficiale, di parte israeliana, che certifichi la presentazione alla controparte di una proposta. Sfidiamo chiunque a presentarlo[2].
Gli israeliani si trincerano dietro la “generosa offerta” fatta da Barak ad Arafat nel 2000, ovvero “Gaza più il 97% della Cisgiordania”. Mai giunta, con i necessari crismi e con precisi confini, dal governo di Tel Aviv.
A parte il fatto che, le risoluzioni 242 e 338 dell’ONU (tuttora in vigore, e che Pierrot probabilmente avrà letto, visto che si sente “vocato” agli Esteri), assegnano totalmente quei territori allo stato palestinese, quel numero – “97”, che fa effetto – è una pia presa in giro. Perché?
Vediamo un esempio comprensibile per noi italiani.
Spicchiamo un salto nella fantastoria ed immaginiamo un ipotetico “movimento per la liberazione etrusca”, il quale chieda allo Stato italiano la cessione della Maremma e del Lazio.
Il Governo Italiano potrebbe concedere ai “rinnovelli Etruschi” il 97% del Lazio e l’intera Maremma, pressappoco la provincia di Grosseto, ponendo però alcuni “paletti”. In primis, vorrebbe mantenere il completo controllo delle frontiere aeree, marittime e terrestri della nuova “Etruria”.
In seconda battuta, concederebbe sì il Lazio, salvo la città di Roma, i porti di Civitavecchia e di Ostia, gli aeroporti, le linee ferroviarie, le autostrade e le vie consolari. Inoltre, tutte le strutture legate alla produzione ed alla distribuzione dell’energia, quelle per le telecomunicazioni ed i siti militari.
Operando un bruto calcolo percentuale, probabilmente la nuova “Etruria” riceverebbe il 97% dell’intero territorio: potrebbero, i nuovi “Etruschi”, ritenersi soddisfatti del risultato?
Questo è un paragone abbastanza calzante, poiché indica la situazione di Gaza e della Cisgiordania, quest’ultima infarcita di colonie israeliane, con relative installazioni militari.
Il problema della suddivisione del territorio non è tecnico – poiché il nuovo stato palestinese dovrebbe avere continuità fra Gaza e la Cisgiordania, ma con una semplice autostrada (e relativi sottopassi) sia Israele, sia lo stato palestinese potrebbero avere continuità, Israele verso il Neghev e Gaza essere collegata a Ramallah. I nodi sono, in realtà, politici: dopo Wye Plantation, si susseguirono gli incontri a tre (Clinton, Barak ed Arafat) e si narra che Clinton, all’ultimo round prima di lasciare la presidenza, consumò un’intera Parker disegnando possibili mappe. Alla fine, spaccò il tecnigrafo.
C’è poi la questione di Gerusalemme.
Gerusalemme è divisa in una parte antica, ad est, ed in una nuova ad ovest. Le “teorie” dei due stati hanno sempre previsto la parte est ai palestinesi e quella ovest agli israeliani: ovviamente, entrambi vorrebbero l’intero il boccone.
La differenza, però, è che mentre i palestinesi non sembrano così interessati alla parte moderna della città, gli israeliani non vogliono cedere la parte antica, nella quale sorgono i ruderi del Tempio di Salomone, distrutto dai Romani nel 70 d C. per sopprimere il nazionalismo giudeo.
Ora, i più volenterosi potranno affermare: non sarebbe possibile suddividere la città in modo che il muro del Tempio rimanga agli israeliani e la Moschea di Al-Aqsa (terzo luogo sacro dell’Islam) ai palestinesi?
Cosa non semplice da attuare, giacché la Moschea di Al-Aqsa fu costruita, successivamente, proprio sui ruderi del Tempio di Salomone, tanto che alcuni gruppi estremisti israeliani avrebbero desiderato farla saltare con l’esplosivo[3].
Un grave problema, che non molti conoscono, è rappresentato dalla “memoria della pietra”. Come ben sanno gli archeologi, le ultime vestigia a scomparire di una civiltà sono proprio le pietre, intese come blocchi lavorati dall’uomo.
La distruzione del Tempio di Salomone comportò, ovviamente, la creazione di un bel mucchio di macerie, con le quali – a quel tempo non si sprecava nulla! – furono costruite (nel periodo aureo musulmano) molte case nella città vecchia.
Nel tempo, gli archeologi israeliani sono riusciti a ricostruire la provenienza di quelle pietre – disseminate nelle viuzze e nei muri della città – e le hanno catalogate: non hanno certo perso tempo e fede gli ebrei più ortodossi, che le considerano sacre (Salomone) e si recano di fronte ad esse per pregare. Chiunque sia stato a Gerusalemme est – la parte araba – avrà notato gli ebrei ortodossi in spolverino nero (con quel caldo…) che dondolano salmodiando: ecco, un ulteriore e serio ostacolo alla suddivisione della città, poiché quelle persone votano, e voteranno sempre chi difenderà (per la causa sionista) quelle pietre.
La soluzione della divisione del territorio, quindi, ci pare una pia presa per i fondelli, giacché non sarà mai trovato un accordo praticabile. A meno che, si consideri “praticabile” una sorta di “Bantustan”, con istituzioni “democratiche” sul modello Kosovo e piantonato all’infinito dalla Nato o da chi per essa.
Gli israeliani affermano – e “Sinistra per Israele” con loro – che manca una credibile classe dirigente palestinese. Non si può – affermano – sono solo straccioni esaltati…
Spesso, sentiamo accusare le dirigenze arabe dei movimenti insurrezionali di sciovinismo, un mix di nazionalismo e valori religiosi fuorviati, ai quali non corrisponde – per contrappeso – un’organizzazione politica in grado d’assumere la reale gestione d’entità politiche e statuali.
In primis, riflettiamo che – con un simile “treno sempre in corsa” di guerre, attentati, ritorsioni, ecc – è ben difficile che un’organizzazione sul territorio riesca a crescere fino a diventare un valido interlocutore. Gli israeliani, di certo, non hanno nessun interesse affinché questo percorso si compia.
Esiste però il caso di Hezbollah: partito politico, movimento popolare e milizia territoriale.
Hezbollah non nasce casualmente dal mondo sciita (anche se, come partito politico, non comprende solo sciiti) poiché l’Islam sciita è quello che, tradizionalmente, possiede una gerarchia religiosa, della quale è invece privo quello sunnita.
Tutti gli ayatollah di fede sciita, siano essi iracheni od iraniani, hanno studiato a Qom, che è la “città universitaria” religiosa dell’Iran: una sorta di “Università Lateranense” del mondo sciita, se mi si passa il paragone (con le dovute, ovvie differenze).
Il mondo sunnita è invece privo di strutture gerarchiche – il che sembrerebbe concedere maggiori spazi interpretativi della dottrina (il discorso, qui, sarebbe veramente complesso[4]) – ma, per contrappeso, non esistono autorità riconosciute erga omnes.
Un Imam può divenire famoso – nel senso di molto ascoltato come persona saggia e colta – ma non avrà mai nessun crisma ufficiale: un ayatollah, invece, occupa un preciso spazio in una gerarchia.
La tradizione sciita, quindi, “entra” nell’universo politico portandosi appresso l’impostazione religiosa: difatti, Hezbollah è un movimento che assegna molta importanza all’organizzazione interna.
Hamas, pur vivendo in una realtà sunnita, ne ha ricalcato l’esempio: nacque principalmente come struttura di supporto sanitario e sociale per i palestinesi, e – anche se ricevette a suo tempo finanziamenti sauditi, provenienti dalle istituzioni caritatevoli islamiche da essi controllate – oggi se n’è distanziato e guarda più all’Iran.
La creazione della struttura politica, e poi militare, avvenne parecchi anni dopo la nascita di Hamas come associazione di supporto sociale, e questo fu il “grimaldello” che scardinò il potere della corrotta Fatah[5] fra i palestinesi. Nel penoso welfare dei Territori, era il medico di Hamas a salvarti la pelle.
Hamas sembra avere nel suo DNA più l’impostazione organizzata di Hezbollah, piuttosto che la prassi “spontaneista” degli altri movimenti palestinesi.
Gli altri movimenti palestinesi di derivazione marxista-leninista, nella regione, sono entrati spesso in contrasto gli uni con gli altri, chi oggi schiavo di un “padrone” estero, domani di un altro: spesso, la corruzione ha guidato molte mani.
Vorremmo avvertire il lettore che la semantica delle lingue europee non può dipingere con precisione il mondo arabo, poiché la lingua vive un rapporto dialettico con i mutamenti sociali, e le vicende della sponda Nord e di quella Sud del Mediterraneo hanno vissuto stagioni storiche assai diverse. Dovremmo, ad esempio, approfondire l’approccio arabo al marxismo: Nasser, Assad, Hussein, ecc…e sarebbe necessario un trattato, non un articolo.
Ciò che appare evidente è la ferma risoluzione israeliana di contrapporsi – subendo, come nel recente caso di Gaza, danni d’immagine considerevoli – proprio a quegli Stati ed a quei movimenti che potrebbero diventare interlocutori credibili.
Vorremmo chiedere, allora, alla “sinistra” (ovviamente, italiana) “per Israele” di spiegarci perché la dirigenza israeliana demonizza proprio le forze politiche più organizzate (che potrebbero essere interlocutori validi) e preferisce loro quelle più “spontaneiste” e difficilmente controllabili (o corrotte), le quali possono trasformarsi rapidamente in “schegge impazzite” di matrice terrorista.
Per una volta, teniamo fuori dal “conto” missili, ritorsioni, sangue e morti: se finiamo in questo budello, sappiamo che ce n’è per tutti. La nostra domanda alla “Sinistra per Israele” è chiara: perché Israele tenta da anni, regolarmente, la distruzione di forme politiche organizzate nei Territori? Per lamentarsi, dopo, di non trovare validi interlocutori?
Che ha da rispondere, “Sinistra per Israele”, per la sistematica disinformazione compiuta sui discorsi del presidente iraniano Ahmedinejad – si scoprì che le traduzioni erano commissionate a strutture “contigue” ai neocon americani[6] – così si continua a far credere che l’Iran lavori per la distruzione d’Israele. Il che, se si leggono le traduzioni ufficiali dell’ONU (non sto parlando di quelle iraniane) appare falso, poiché Ahmedinejad sostiene la lotta contro il sionismo, ossia l’espansione d’Israele in Oriente. E, riguardo alla sopravvivenza d’Israele, ha sempre affermato che è la dirigenza israeliana stessa a metterla in pericolo, come oramai sostengono anche insospettabili media occidentali[7]. Infine, ricordiamo che in Iran vive la più numerosa comunità ebraica del Medio Oriente.
Non menzioniamo nemmeno la penosa querelle del nucleare iraniano – che è civile, e che per diventare militare necessiterebbe almeno di un decennio – ricordando che nessun trattato internazionale proibisce la costruzione di una centrale elettro-nucleare. E nemmeno, a rigor di logica, le nazioni “nucleari” hanno titolo giuridico per opporsi al riarmo altrui.
Sull’altro piatto della bilancia, ci domandiamo perché Israele non batté ciglio quando i sauditi – pochi anni or sono – ristrutturarono il loro apparato missilistico (ufficialmente “convenzionale”) con massicci acquisti in Cina e shelter corazzati per la protezione degli ordigni. I quali, si presume che siano dotati – oltre alle solite testate esplosive – di quelle chimiche e batteriologice, che non è possibile affermare (nessuno le ha mai lanciate) se siano più o meno distruttive (per i danni causati alle popolazioni) di quelle nucleari.
Invece, pare che le armi più pericolose siano i missili Qassam – perché sono vicini? – ma allora non si comprende perché lo siano gli Shahab 3 iraniani (che sono lontani). Dobbiamo scandalizzarci, poiché una nazione che non ha mai firmato protocolli d’intesa sulla limitazione delle armi nucleari (per forza: ufficialmente, non le ha!), si lamenta se un’altra nazione produce missili che possono raggiungerla? Non dobbiamo? Chiediamo allora a Pierrot: chi ha il monopolio dell’armamento balistico? E l’atomica pakistana? Israele non sapeva nulla? Gli USA nemmeno?
Siamo certi che Fassino si trova in buona compagnia con questa bizzarra impostazione: senz’altro, Kissinger e Churchill (come perfetti rappresentanti dell’imperialismo e del colonialismo occidentale) approverebbero.
Ciò che più c’interessa sapere da Fassino, nella sua veste di fondatore di “Sinistra per Israele” – lasciamo fuori gli israeliani, i loro siti di informazione/disinformazione e la prevedibile “offensiva” sui blog, la questione riguarda noi italiani ed il nostro rapporto con Israele – è come spiega questa “naturale” propensione d’Israele a distruggere ogni forma organizzata fra i palestinesi (e non solo: il Libano?), per poi lamentarsi di non trovare interlocutori validi.
Alla luce della politica europea e del diritto internazionale, come giudica Pierrot questa prassi? Confida ancora che sia credibile – dopo Gaza – la via dei “due popoli e due stati”?
Perché Fassino – il quale non manca mai di ricordare che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente – non prende in esame, anche per Israele, la soluzione cercata e poi trovata in Europa per le guerre di religione? Senza tornare ad Augusta, non basterebbe dichiarare che gli abitanti di qualsiasi stato veramente democratico – senza distinzione di razza e di religione – hanno uguali diritti e doveri nei confronti dell’autorità statale? Perché i palestinesi – dopo 40 anni dalla guerra dei Sei Giorni – sono ancora discriminati nei “Bantustan”? Perché non hanno gli stessi diritti degli israeliani? Poiché non possono vivere tutti in un solo stato, come qualsiasi democrazia occidentale? Perché Israele non ha una Costituzione, ma solo un compendio di norme le quali – guarda a caso – sono mediate direttamente dalla Torah? Gli pare un solido “basamento” per una democrazia? Non stiamo parlando del Vaticano o di San Marino, bensì di una potenza nucleare e del (probabile) terzo esercito del Pianeta.
Come può, un uomo politico il quale ha giurato fedeltà ad una Repubblica, la quale afferma l’uguaglianza giuridica “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”[8], assegnare il suo sostegno ad una nazione che non rispetta questo basilare principio?
Ricordiamo la penosa querelle scatenata per le contestazioni alla Fiera del Libro di Torino lo scorso anno, la contrarietà di molti alla sua intitolazione ad Israele. Invitiamo Fassino a compiere una riflessione: qualsiasi “per” – per contrappeso – genera un “anti”, il che significa condurre a forza nel nostro Paese l’impostazione di scontro che vige fra Israele ed i palestinesi. Questo impianto, preclude alla nostra diplomazia qualsiasi “patente” di “terzietà” nei confronti dei contendenti: “per”, Fassino, “per”, lo rammenti.
Da ultimo, vorremmo ricordare che la prima firma in calce, fra i sostenitori dell’associazione, è quella di un avvocato napoletano, tale Giorgio Napolitano. Ora, il cittadino Napolitano è libero d’apporre la sua firma ove desidera: qualora fosse – per caso – il Presidente di una Repubblica, dovrebbe – a nostro avviso – porre maggior attenzione alle firme che appone, poiché sigla a nome del popolo italiano. Ogni commento è superfluo.
Chi scrive, ben conosce l’ambiente dell’ebraismo torinese, il quale ha sempre guardato – per tradizione – a Piero Gobetti e non so come prenda oggi le “giustificazioni” della Livni per Gaza: rammenti, Pierrot, le figure che hanno reso fulgida, per genuino liberalismo, quella tradizione (che non riporto nemmeno, le conosce benissimo). E rifletta.
Aspettiamo una risposta come uomo politico, perché il Partito Democratico ha perso due punti percentuali in una settimana e non comprende il perché. Anche chi – come il sottoscritto, che ci tiene a precisarlo – non vota più da tanto e nulla ha a che spartire con quel partito, ritiene che una risposta – la seconda forza politica del Paese – dovrebbe darla ai suoi elettori e sostenitori. Altrimenti, sarà condannato ad una continua emorragia, fino al collasso finale.
Noi, che siamo freddamente insensibili ai destini del Partito Democratico, siamo pazienti ed attendiamo Pierrot: altrimenti, continueremo a domandarci se la zanzara serva a qualcosa.
[1] www.sinistraperisraele.it
[2] “Israele accetta di attuare i primi due dei tre ritiri militari previsti in Cisgiordania. In un primo momento l'esercito israeliano si ritirerà dal 13% del territorio cisgiordano: l'1% passerà sotto controllo totale dell'Autorità palestinese, il 12% sarà posto sotto l'autorità civile dell'Autorità palestinese, il 3% di esso costituirà una "riserva naturale" dove saranno limitate le costruzioni. Le parti formeranno un comitato incaricato per esaminare le modalità della terza fase del ritiro previsto dagli Accordi di Oslo.”
Fonte: http://www.conflittidimenticati.it/cd/a/17488.html.
Come si potrà notare, le concessioni israeliane sono sempre state piuttosto “tiepide”: altro che il “97%” della Cisgiordania.
[3] Fonte: Benjamin Barthe – Fouilles archéologiques, outil politique des colons de Jérusalem - Le Monde – 20 Febbraio 2008.
[4] Consiglio, a chi desiderasse approfondire l’argomento, la lettura del mio “La democrazia della mezzaluna” (http://www.carlobertani.it/la_democrazia_della_mezzaluna.htm).
[5] Basti ricordare, in un panorama di povertà estrema, la rendita da nababbi concessa alla vedova di Arafat.
[6] Fonte: http://onlinejournal.com/artman/publish/article_1559.shtml. Riportato anche da parecchi siti e blog italiani, con il titolo “Creare mostri”.
[7] Fonte: Michelle Goldberg – Israel free ride ends – pubblicato dal “Guardian” britannico – 13/01/2009 - http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2009/jan/13/us-media-israel-gaza.
[8] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3.