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Siamo ormai abituati ad ascoltare il consueto ritornello sull’aumento – ormai costante dal 2000 – del prezzo del greggio: l’Organetto Nazionale ci mostra le solite stazioni di rifornimento, lo stesso benzinaio, le consuete banconote con le quali paghiamo il carburante. Anche il commento è sempre lo stesso: la benzina aumenterà di tot, il gasolio di…
A poco a poco ci abituiamo alla maledizione degli Dei, allo strapotere degli emiri in caffettano: «Spendi e spandi, spandi e spendi effendi!» cantava in anni lontani Rino Gaetano, tutta colpa del Feisal di turno.
Ciò che non raccontano è che c’è un nesso fra l’aumento del prezzo dell’energia (del quale il costo della benzina alla pompa è – tutto sommato – un aspetto secondario) e la crescita economica o, meglio, dallo spazio che ci separa dallo spettro della recessione.
Qualche volta azzardano qualche fumoso commento: «La BCE lancia allarmi per la crescita economica…l’economia potrebbe ristagnare per l’alto costo del greggio…i consumi delle famiglie potrebbero contrarsi di tot…». Ciò che non raccontano è che c’è un limite alla crescita del prezzo del greggio, una soglia – oltrepassata la quale – s’inizia a rischiare grosso.
Anzitutto dobbiamo chiarire che l’attuale prezzo del greggio non è il più alto che mai sia stato raggiunto: in termini puramente nominali il petrolio non è mai arrivato a 70$ il barile, però dobbiamo anche tener conto del valore della moneta di riferimento, ovvero del dollaro.
La prima crisi petrolifera avvenne nei “terribili” anni ’70, quando il greggio passò in sette anni – dal 1973 al 1980 – da 20 ad 80 dollari il barile (esprimendo il prezzo con l’attuale valore della moneta americana). Il picco massimo raggiunto, a quel tempo, fu di 35$ il barile, ma un dollaro del 1980 aveva lo stesso valore (inteso come quantità di beni e servizi acquistabili con la stessa quantità di denaro) di circa 2,2 dollari attuali.
La benzina, che nel 1972 costava 164 lire il litro, passò nel 1980 a 1.000, con un aumento del 600%! Pur considerando che l’inflazione – in quegli anni – marciava a due cifre, si trattò di una rivoluzione (ahimè, dolorosa) giacché gli italiani smisero d’acquistare vetture veloci e spaziose ed iniziarono a tener d’occhio con attenzione la lancetta del carburante. Prima del 1970, nessuno si sognava di fare discussioni sul prezzo della benzina: i commenti – nei bar – erano centrati sui cavalli di potenza e sulla velocità che le famose “coupè” dell’epoca potevano raggiungere.
In pochi anni il tenore dei discorsi cambiò radicalmente, ed il leitmotiv diventò: «Quanto riesci a fare con un litro?» Sic transit gloria mundi.
Qualora il prezzo del greggio raggiungesse i fatidici 80 dollari il barile saremmo tornati alla situazione del 1980, ma questo varrebbe soltanto per i prolissi discorsi al bar, perché – nel frattempo – il pianeta ha mutato pelle. Purtroppo, l’informazione ufficiale non va oltre il livello dei discorsi “da bar”, e l’economia non tiene minimamente conto di quanto ci raccontiamo mentre beviamo un caffè.
Anzitutto dobbiamo comprendere le ragioni che hanno portato – dal 1995 – il costo del barile di greggio da 11 a 70$: notiamo che l’aumento è dello stesso ordine di grandezza di quello degli anni ’70, ovvero circa il 600%.
Anche correggendo i valori con il deprezzamento del dollaro, che sull’euro è di circa il 25%, il costo del barile è aumentato parecchio: praticamente quadruplicato. Le ragioni?
Le ragioni sono sostanzialmente tre:
1. Il progressivo esaurirsi dei giacimenti. Non siamo ancora all’estinzione, ma ci stiamo avvicinando. Le previsioni indicano che – con gli attuali consumi – abbiamo petrolio per circa 40 anni, gas per 60 e carbone per 200. Voglio – io stesso – mettervi in guardia: troverete altre cifre che si discostano da questa ipotesi, giacché tengono conto delle riserve degli scisti bituminosi, ovvero di “sabbie” intrise di petrolio; il problema è che la quantità d’energia necessaria per l’estrazione del combustibile da queste fonti supera il potere calorifico del prodotto estratto. Alcuni affermano che con un progressivo aumento del prezzo l’estrazione diventerà economica, ma per questa ed altre ipotesi (il metano imprigionato sotto gli alti fondali marini, ad esempio), si tratta quasi di fantascienza, giacché pende su tutto questo discorso la spada di Damocle del punto successivo.
2. Il consumo di energia – per aree geografiche – è completamente diverso rispetto al 1980. A quel tempo avevano alti consumi energetici solo l’Europa, gli USA, l’URSS e pochi altri. Oggi, si sono aggiunti Cina, India, Brasile ed altri s’accodano. I 28 milioni d’operai tessili cinesi che producono la quasi totalità dei tessuti che ormai si consumano nel pianeta – nel 1980 – non esistevano. Le grandi software-house indiane che producono a getto continuo nuovi programmi (Windows Installer – l’applicazione che installa nuovi programmi sul computer – è di un ingegnere indiano) nel 1980 era addirittura difficile capire cosa sarebbero potute essere. A Belo Horizonte si fabbricano auto, in Camerun si tesse a tutto vapore, in Vietnam si fabbricano (per ora) prodotti di basso livello tecnologico, ma in gran quantità. Tutto ciò richiede energia, tanta energia, un mare d’energia. Nella zona di Canton mancano tuttora all’appello 500 MegaWatt giornalieri, e le autorità hanno programmato una sorta di “distacco” a rotazione delle industrie per far fronte alla carenza dell’offerta. Si potrà obiettare che le aziende cinesi consumano sì energia, ma che la stessa energia non è più necessaria in Europa e negli USA, il che è verissimo. Dimentichiamo, però, che s’utilizza energia sia per produrre che per consumare, ed i consumi energetici occidentali non sono diminuiti, anzi, negli USA il consumo di petrolio è in costante aumento mentre in Europa è abbastanza stabile[1]. La richiesta d’energia – a livello globale – è notevolmente aumentata, anche grazie ai nuovi “succhiasangue” energetici entrati in commercio, in primis i condizionatori. Se, però, c’è ancora energia per almeno mezzo secolo (tralasciamo il carbone, giacché il suo uso presenta numerosi inconvenienti), perché non incrementare la produzione per far fronte ai bisogni? Poiché c’è la seconda spada di Damocle, ovvero il terzo punto.
3. Per estrarre petrolio non basta fare un buco nella sabbia: ci vogliono investimenti di miliardi di dollari, ed esser certi che a nessun guerrigliero, terrorista o dittatore passi per la testa di gettare il classico cerino. La vicenda irachena racconta proprio questa difficoltà: nonostante la “fame” di petrolio, nonostante che l’Iraq sia al secondo posto nel mondo per riserve accertate (qualcuno sostiene al primo, ma ha poca importanza, visto che l’altro concorrente è la confinante Arabia Saudita), nonostante centomila soldati americani si “prodighino” per “pacificare” il paese, nessuno investe se non sa – domani – se rivedrà l’oleodotto, il gasdotto, il pozzo d’estrazione. E nei paesi dove non ci sono guerre e tensioni? Le compagnie petrolifere si trovano ad un bivio: continuare ad investire nel petrolio oppure compiere il “salto” e passare al vento, al sole, all’idrogeno. Shell ha acquistato il settore solare di Siemens, una sorta di “assicurazione” per il futuro, ma è un futuro nel quale – se non s’investe – c’è poco da sperare. Investire nel petrolio? Certo, ma il ritmo d’incremento della scoperta di nuovi giacimenti è passato dal 45% del decennio 1981-1991 al 5% del decennio 1991-2001[2]. Attualmente, ogni dieci anni s’incrementano di un misero 5% le riserve censite, mentre i consumi salgono del 13% circa a decennio[3]. In altre parole, sulla remunerazione degli investimenti pende la terza spada di Damocle, quella dell’esaurimento delle riserve accertate che abbiamo già esplicitato al primo punto, ed il cerchio si chiude.
Il prezzo del greggio sale quindi per una semplicissima ragione – che ha tre aspetti – ma che sostanzialmente significa: l’era dei combustibili fossili sta finendo.
Vivere in periodi di basso impero non è il non plus ultra dei desideri: i Romani sopravvissero almeno tre secoli prima del tracollo, gli Arabi quasi mezzo millennio, ma non è certo un gran campare. Tuttavia, ci dobbiamo abituare alla progressiva erosione del “beau vivre” del ‘900, perché ogni rivoluzione, ogni grande mutamento necessita di tempo per concretizzarsi, ed in questo “tempo” nascono, vivono e muoiono miliardi d’esseri umani. Noi.
Tutti sanno che il futuro dell’energia si chiama sole e vento, ma da questo fulgido futuro siamo ancora distanti; è pur vero che – se ben gestita – la transizione potrebbe essere meno traumatica, ma voltiamo il capo verso Oriente ed osserviamo qual è il tema scelto dal più potente paese del pianeta per “governare” la crisi: la guerra.
Un bel sogno potrebbe condurci ad immaginare una tranquilla transizione dal mondo dei fossili alle energie naturali, gestito tramite l’ONU dalle migliori menti del pianeta: scienziati, sociologi, politici di razza.
Svegliamoci dal sogno, ed osserviamo chi è l’uomo più potente del pianeta e chi sono i suoi amici: per risolvere il problema degli incendi nelle foreste propone di tagliarle, non gliene frega un accidente se l’aumento dell’effetto serra scatena l’energia devastante delle tempeste tropicali, per mascherare il tragico fallimento dei soccorsi a New Orleans chiede più poteri per l’esercito, ancor più stato di polizia.
I suoi amici si chiamano Musharraf, che governa con la violenza dei servizi segreti come Saddam Hussein, un pallido ed insignificante Blair ed un patetico Berlusconi, che afferma che l’Italia è ricca perché tutti lavorano in nero ed hanno il telefonino. Questi sono gli attori della vicenda, coloro che dovrebbero condurre “con saggezza” la transizione. Sveglia.
Ci sono anche voci discordanti, per fortuna.
Il quotidiano “La Repubblica” – poco prima dello scoppio delle ostilità in Iraq – cita un rapporto della Commissione Europea del 13 febbraio 2003:
E dunque, scenario numero uno: guerra rapidissima in febbraio, greggio a 50 dollari ma solo per due mesi, 0,1% di crescita in meno, massimo 0,2% in più d'inflazione. Da metterci la firma. Scenario numero due: guerra breve, il prezzo del barile vola fino a 70 dollari, (39 la media annua), meno 0,4% di pil, più 0,5 d'inflazione. Già va meno bene. Scenario numero tre: guerra difficile, il greggio si mantiene intorno a quota 35-40 dollari, l'impatto sulla crescita è di 0,7 punti, quello sui prezzi dello 0,4. Non c'è da stare allegri.
Ma nello scenario numero quattro, con una guerra evidentemente sfiancante, duratura, che magari va pure oltre i confini dell'Iraq, c'è da aver paura: shock petrolifero inevitabile, ma anche caduta della fiducia, collasso delle Borse, fragilità delle imprese, squilibri nei conti Usa, volatilità del cambio, tensioni politiche. Significa stagnazione o recessione, vuole dire che il Pil di Eurolandia può ridursi anche dell'1,4%. Per intendersi, quest'anno è prevista una crescita dell'1,8%: non resterebbe quasi nulla. Cosa fare, allora? Per ridurre i tassi, non c'è tanto spazio. Meglio azioni coordinate tra le autorità monetarie, come avvenne l'11 settembre. Di sicuro, vanno salvaguardati gli accordi commerciali. Quanto ai bilanci pubblici, la commissione ricorda che in caso di pesante contrazione dell'economia il deficit-pil può anche salire oltre il 3%.
Gli economisti: normalità a fine anno (dal “Corriere della Sera” del 21 agosto 2004)
Alcuni economisti, come Ian Stewart di Merrill Lynch, sostengono che si tratta di allarmi esagerati. «È molto improbabile - dice - che i prezzi del petrolio persistano a questo livello, credo che tra sei mesi saranno scesi». Ma altri non concordano.
Stephen Roach di Morgan Stanley, per esempio, dice che se il barile resta a 50 dollari per parecchi mesi, «finiamo nella situazione di pieno shock petrolifero già vissuta in passato», qualcosa che porta alla recessione. Lo stesso segretario al Tesoro americano, John Snow, sostiene che i prezzi alti «agiscono come una tassa, tolgono denaro dalle tasche della gente e delle imprese».
[1] Fonte: Eni World Oil & Gas Review 2003.
[2] British Petroleum Statistical Review 2002.
[3] Fonte: Eni World Oil & Gas Review 2003.