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Se Scaroni fosse Mattei...

Ovvero: tesori, tesoretti e straccioni.

  

La politica italiana, aggrovigliata su sé stessa, oramai discute soltanto di facezie: s’arrovella per chiedersi se il comandante della Guardia di Finanza debba essere un uomo Speciale o normale, se sia meglio destinare quattro soldi a questo od a quel ministero, se “ingolfare” la Magistratura con qualche nuova inchiesta-veleno, nei confronti di Berlusconi o di D’Alema.

Una destra populista confonde la volontà popolare con le proprie necessità di non cedere troppo tempo agli anni, e così s’inventa – osservando la data di nascita del suo leader – di chiedere al Capo dello Stato nuove elezioni, dopo aver strappato all’avversario quattro comuni alle Amministrative.

Il Governo, prigioniero di mille ricatti, provvede alla “normale emergenza” governando con il voto di fiducia, mentre un’opposizione agguerrita si rallegra, concia delle difficoltà altrui, proprio perché sono “altrui” e non deve sbucciarsele in casa. Fanno finta di non ricordare quando cambiavano i ministri dell’Economia pescandoli dal mazzo delle carte, e Bruxelles tuonava.

La situazione italiana segue oramai un copione impazzito, quello di una destra che non è europea ma quasi sudamericana e quello di una sinistra che si rallegra per le amicizie che conta nella finanza internazionale, al punto di dover tacitare i sindacati con un piatto di lenticchie.

Vale la pena, ancora, di seguire la commedia? No, perché è recitata da persone normali, mentre avremmo veramente bisogno di persone speciali. Se non le avessero crocifisse da decenni.

 

Oggi, ci si rallegra perché il gettito fiscale ha creato un avanzo di bilancio – il cosiddetto “tesoretto” – del quale non sanno con precisione nemmeno a quanto ammonta: si va da 2,5 a 9 miliardi, secondo i giorni e gli umori. Mai come oggi, tutti gli occhi sono puntati sul dito del saggio che indica il cielo.

Eppure, ogni anno che passa, le stime sulla “bolletta energetica” aumentano con la progressione dei consumi e gli aumenti dell’energia sul mercato internazionale. Alcune cifre?

 

La “bolletta energetica” italiana, prevista per il 2007[1], è di circa 45 miliardi di euro, dei quali 24 per il solo petrolio. Nel 2006 furono 48 miliardi, ma ricordiamo che i 45 miliardi del 2007 sono, per ora, una previsione. Un misero aumento del barile – dovuto ad una guerra, una guerricciola, un uragano, un allarme sulle stime – potrebbe cambiare il quadro.

Sono 45 miliardi di euro che prendono la via dell’estero, dalla Libia all’Arabia Saudita, dalla Russia alla Francia. I miliardi di euro del “tesoretto”, invece, provengono tutti dalle tasse degli italiani, e sono ben poca cosa rispetto ai numeri dell’energia. Da dove nasce questa situazione?

 

Se vogliamo osservare la situazione da un diverso punto di vista, potremmo valutare che i consumi energetici totali italiani s’attestano intorno ai 190 MTEP annui[2], comprendendo in questa cifra tutto, dalla lavatrice all’automobile.

Ovviamente, l’energia proviene da più fonti – petrolio, gas, carbone, idroelettrico, acquisti d’energia elettrica sul mercato estero, ecc – ma, per comodità, viene valutata come se fosse tutta petrolio.

Siamo abituati a considerare il prezzo del petrolio in barili (barrel), ma una tonnellata di petrolio equivale a circa 6,2 barili[3]: considerando un prezzo di 65 $/barile, una tonnellata costa circa 400$ americani. 190 milioni di tonnellate, dunque, equivarrebbero a 76 miliardi di dollari, circa 56 miliardi di euro[4].

Da questa cifra dobbiamo sottrarre il 10% di produzione nazionale[5], e siamo a circa 50. Non tutta l’energia proviene però dal petrolio e dal gas, ed il carbone è una fonte più economica: come si può notare, cifre fra i 45 ed i 50 miliardi di euro sono perfettamente coerenti con i consumi.

 

Ecco la quadratura del cerchio, da dove nasce la tendenza a ristrutturare le centrali che funzionano a petrolio con il carbone: una semplice convenienza economica, giacché il costo dell’energia in Italia è più alto che all’estero.

Si tratta, però, di una politica assai miope: ristrutturare una centrale comporta onerosi investimenti e anni di lavoro. Nel volgere d’alcuni anni, aumentando la domanda di carbone, il prezzo potrebbe salire e saremmo da capo: in più, con l’aggravio di bruciare carbone, la fonte che produce più gas serra.

Anche l’ipotesi nucleare – caldeggiata a lungo dal centro destra, ma solo per scopi propagandistici – è stata abbandonata anche dall’ex Ministro Matteoli: un paese che decise vent’anni fa di non ricorrere al nucleare non può, nel volgere di un battito d’ali, riprendere quella strada.

Considerazioni ambientali a parte (scorie, ecc), quanto tempo ci vorrebbe per avere una decina di centrali nucleari in Italia? Non esistono nemmeno più (o sono ridotte al lumicino) le facoltà universitarie del settore!

L’IEA[6] valuta la disponibilità d’Uranio nel pianeta in 40-80 anni, secondo il prezzo d’estrazione e di raffinazione del minerale (in aumento): anche se l’Italia decidesse di costruire nuove centrali – e dove? Con quello che succede per i termovalorizzatori, ci sarebbe un solo sindaco che acconsentirebbe? Dovremmo rifare il referendum? – ci arriveremmo probabilmente quando il nucleare diventerebbe poco attraente anche dal punto di vista economico.

Il “risorgimento” nucleare è dovuto principalmente alla peculiarità di quel sistema, che non produce gas serra, ma è un risorgimento che ha le ali tarpate proprio dagli enormi ritardi accumulati dall’Italia sul fronte dell’energia. Ci arriveremmo troppo tardi.

 

Come si è giunti a questa situazione?

Le scelte energetiche italiane nascono da due momenti ben precisi: il dopoguerra di Enrico Mattei ed il referendum sul nucleare del 1987.

Quando Mattei si sedette alla poltrona dell’AGIP, ereditando il carrozzone fascista, l’Italia era in ginocchio: fonti nazionali quasi inesistenti, dipendenza dall’estero pressoché totale. Mattei richiamò alla neonata ENI anche numerosi dirigenti che avevano subito l’ostracismo poiché coinvolti con il passato regime, giacché aveva bisogno di personale preparato. Altro che “bipartisan”!

L’obiettivo era quello d’iniziare a sfruttare il gas metano presente nel sottosuolo della pianura Padana, e ci riuscì. I volumi estratti non erano certo abbondanti, ma per il nulla che l’Italia possedeva erano pur sempre qualcosa.

La lungimiranza di Mattei, però, fu evidente da quel momento in poi: forte della sua formazione di cattolico attento alle esigenze sociali, lanciò l’ENI alla caccia di contratti con i paesi produttori di petrolio e di gas. L’arma vincente? Pagava semplicemente un poco di più degli inglesi e degli americani. In quegli anni, la BP “divideva” i proventi della società petrolifera mista – Anglo Iranian Oil – in un modo assai curioso: il 94% agli inglesi ed il 6% agli iraniani. Una vera ed onesta joint venture!

Fu facile, per Mattei, introdursi in quel mercato poiché – almeno fino al 1956 ed ai fatti di Suez – le compagnie inglesi trattavano il petrolio con l’identica mentalità coloniale d’anteguerra, e gli americani – pur non essendo mai stati colonialisti – cercavano d’imparare.

Prima d’essere ucciso, Mattei riuscì a creare una serie di contatti che consentirono all’Italia la fornitura energetica per i decenni a venire: le basi dell’approvvigionamento petrolifero italiano sono ancora quelle create da Mattei. L’unica, importante novità fu il gasdotto siberiano, che coinvolse l’Italia e l’URSS in una serie di collaborazioni industriali: ad esempio, lo “sbarco” della FIAT a Togliattigrad e la fornitura di macchine per la lavorazione del legno, delle quali i sovietici avevano gran bisogno, viste le enormi ricchezze forestali. Grazie a quegli accordi, ancora oggi l’Italia conserva un’ottima posizione in quel settore tecnologico: nel modenese sorgono moltissime aziende del settore del legno.

 

Il referendum del 1987 non doveva finire in quel modo – così pensavano i vertici dell’ENEL, che aveva iniziato ad investire a Caorso ed a Montalto di Castro per le prime due, vere[7], centrali nucleari italiane – ma cadde la tegola di Chernobyl, ed il popolo italiano disse di no.

Nel 1987, dopo il referendum, la classe politica del tempo avrebbe dovuto prendere coscienza che l’Italia aveva abbandonato quella strada – mentre Francia, Germania e Gran Bretagna procedevano – e prendere provvedimenti.

Già allora si sentiva parlare d’energie rinnovabili, ma il basso prezzo del petrolio – giunse a 11$/barile negli anni ’90! – confinava il settore in un ambito meno pressante, con pochi fondi e, tutto sommato, considerato quasi come un settore di ricerca pura. In altre parole: se son rose fioriranno, ma non perdiamoci troppo tempo.

 

Intorno al 1980, ad esempio, la FIAT studiava un primitivo modello d’aerogeneratore – il Libellula – del quale ebbi modo di seguire le vicende, poiché un prototipo fu installato proprio nella tenuta di un mio conoscente.

L’aerogeneratore, a differenza dei modelli attuali, affidava ad un complesso sistema di molle e contrappesi la possibilità di mantenere costante la rotazione al variare del vento che, quando “variava” troppo, distruggeva molle e contrappesi.

Puntualmente, giungevano da Torino i tecnici dell’azienda che sistemavano nuove molle e contrappesi, che il vento si premuniva di fracassare nuovamente.

Le strade seguite da tedeschi e danesi furono invece diverse: approfondirono molto – grazie alla “ricaduta” delle tecnologie aeronautiche – lo studio dei materiali per consentire alle pale di flettersi senza rompersi, ed i risultati – oggi – si vedono.

 

Negli stessi anni, però, il sistema politico italiano era già entrato in cortocircuito per la sciagurata gestione del debito e per i noti “terremoti” internazionali: non ci furono di certo orecchie attente al problema, e quella pessima impostazione perdura.

Ancora nel 2004, riuscirono a cacciare Rubbia dalla presidenza dell’ENEA poiché, altrimenti, il solare termodinamico avrebbe seriamente corso il rischio di diventare una realtà.

 

Vale la pena di soffermarsi qualche secondo sulle esternazioni di Scaroni – Presidente dell’ENI – poiché sono illuminanti. Con soddisfazione, affermava qualche mese or sono “che, per fortuna, l’Italia non aveva venti costanti e potenti come quelli del Mare del Nord, e quindi il sistema eolico era improponibile”.

Considerazioni tecnologiche a parte – l’affermazione di Scaroni ha del vero, ma sottende anche molte falsità – stupisce osservare che un uomo che s’occupa d’energia “si rallegri” perché l’Italia è relativamente più povera di una risorsa energetica. Non credo che Mattei si sarebbe “rallegrato”.

Contemporaneamente, Enelgreenpower – ossia l’ENEL – affermava candidamente che la risorsa eolica era valutata, nel pianeta, quattro volte l’intero fabbisogno mondiale del 1998. Nel 1990, l’Ente Americano per l’Energia sosteneva che tre soli stati – North Dakota, Kansas e Texas – erano in grado di fornire l’intero fabbisogno nazionale con il sistema eolico. Nel 2005, l’Università di Stanford rivedeva al rialzo quelle stime. C’è proprio da “rallegrarsi”.

 

L’impasse energetica italiana nasce dunque da un coacervo di fattori, che maturarono negli stessi anni: il referendum del 1987, la crisi politica dei primi anni ’90 e la contemporanea dismissione di molte aziende meccaniche di proprietà statale. Già, perché se desideriamo costruire impianti per la captazione delle energie rinnovabili, qualcuno deve pur costruirli!

Non dimentichiamo che l’area anseatica è diventata leader dell’eolico anche per ragioni storiche: l’ultima azienda che produceva mulini a vento tradizionali (quelli delle cartoline) chiuse i battenti, in Danimarca, intorno al 1970. Vent’anni dopo, s’affermava la nuova industria eolica: in Germania, valutano che 250.000 persone lavorino nel settore delle energie rinnovabili.

 

Chi poteva (e potrebbe), in Italia, diventare attore nel nuovo settore?

L’ENEA, ad esempio, ha praticamente terminato la fase di ricerca sul solare termodinamico: chi lo realizzerà? Con il ritorno di Rubbia, è possibile che l’impianto di Priolo Gargallo sia finalmente terminato, ma si tratta pur sempre di un impianto sperimentale, e gli anni passano.

Le grandi aziende meccaniche italiane si contano sulle dita di una mano: FIAT, Ansaldo, Italcantieri, OTO Melara, Pignone e poco di più. Italsider non esiste praticamente più, l’IRI è un ricordo.

La più importante azienda – la FIAT – deve focalizzarsi sul “core business”, ossia sul settore auto, per non perdere il terreno che ha faticosamente riguadagnato dopo una crisi che giunse ai limiti dell’estinzione.

Ancora una volta – come dopo l’Unificazione, durante il Fascismo, nel Dopoguerra – dobbiamo costatare la debolezza dell’apparato produttivo italiano. Il tessuto produttivo italiano riesce ad interpretare bene le nicchie di mercato – pensiamo al made in Italy, l’estetica – poiché la dimensione contenuta delle aziende è in grado di competere soltanto sulle nicchie, non sui grandi mercati.

La “mano pubblica” non ha più la possibilità d’intervenire direttamente nella gestione industriale – non entriamo nel merito della contesa fra pubblico e privato, constatiamo semplicemente che così è – e quindi (anche per le norme europee in materia) lo Stato non può decidere di costruire centrali solari od eoliche.

Possono costruirle i privati? Troppo piccoli per una simile impresa: potranno al massimo costruire singoli settori della “filiera” della nuova industria, ma non interpretare il processo produttivo dalla A alla Z.

Lo Stato potrebbe favorire – mediante la leva fiscale – consorzi d’aziende che lavorano su segmenti diversi della stessa “filiera” industriale: sarebbe un tentativo per conciliare l’originalità del nostro tessuto industriale – basato su tante piccole e medie imprese – con la necessità di gestire mercati ampi e complessi. Non dimentichiamo, però, che il tempo passa: i colossi internazionali dell’energia non aspetteranno certo l’Italia.

 

Rimangono ENEL ed ENI – quotate in Borsa ma con una residua partecipazione dello Stato – che però pensano al carbone (ENEL), oppure si “rallegrano” se c’è poco vento (ENI).

Nulla vieta d’installare aerogeneratori prodotti all’estero – così oggi vanno le cose – ma non dimentichiamo che, chi “perderà il treno” della nuova industria energetica, accumulerà probabilmente un secolo di ritardo tecnologico.

Per il solare termodinamico, invece, siamo al parossismo: la nuova tecnologia è completamente italiana!

Attualmente, l’ENEA prevede che il costo di produzione di un KW/h elettrico, con la nuova tecnologia, si aggiri intorno ai 6,5 euro/cent, inferiore al petrolio ed al gas e poco più alto del carbone (però, senza inquinare!)[8].

Nei documenti ufficiali dell’ENEA, però, traspare un concetto che vale la pena d’analizzare.

La captazione solare è proficua a molte latitudini – l’Austria è il paese con più collettori solari (acqua calda) pro capite – ma è alle basse latitudine, zone tropicali ed equatoriali, che diventa molto conveniente.

 

Leggiamo cosa afferma l’ENEA nel suo documento ufficiale sul solare termodinamico (csp.pdf):

“Come si è visto in precedenza, per gli impianti solari a concentrazione il grosso del mercato potenziale, più prossimo all’Italia, si trova nei Paesi a sud e a sud-est del Mediterraneo, ovvero il Nord-Africa e il Medio Oriente. La presenza in questo ambito geografico di vaste aree ad alto irraggiamento diretto e con scarso valore commerciale (non essendovi praticabile economicamente né l’agricoltura né la pastorizia) offre la possibilità di produrvi energia di origine solare a basso costo.”

 

Senza voler apparire presuntuoso, faccio notare che già lo affermavo nel 2003:

“La principale ragione che ha condotto a descrivere come non economico il sistema fotovoltaico è che tutte le analisi compiute, in Europa e negli Stati Uniti, sono state attuate considerando solo le alte latitudini, dove la radiazione solare annua è insufficiente per rendere questo sistema competitivo[9]

Io riferivo l’analisi al sistema fotovoltaico, ma la consistenza della radiazione è la stessa: l’ENEA – se stima il costo di produzione di 1 KW/h a 6,5 euro/cent nelle regioni meridionali europee – scende, nello stesso documento, a 4,5 per le aree tropicali ed equatoriali.

 

Perché? Poiché la radiazione solare, pur essendo consistente al solstizio d’estate alle nostre latitudini, scende a quello invernale ad 1/6 circa (media) rispetto alle aree equatoriali. In altre parole, riceviamo molta energia in estate, ma pochissima d’inverno: fra i Tropici e l’Equatore, invece, i valori sono più costanti tutto l’anno; inoltre, la media annua (la quantità totale d’energia) è sensibilmente a loro favore. Difatti, l’ENEA stima una diminuzione del costo del singolo KW/h di quasi un terzo, se gli impianti fossero situati nelle aree sahariane e sub-sahariane.

 

Tutto ciò ci riporta alla domanda iniziale, ovvero: se Scaroni fosse Mattei…

Se Scaroni fosse Mattei, ritornerebbe – quasi fosse la sua reincarnazione – in Africa: questa volta per stendere accordi per le forniture energetiche utilizzando la nuova tecnologia, tutta italiana, che ci farebbe tornare fra le nazioni che sfornano tecnologia.

Qualcuno potrebbe domandarsi: perché non attuare la captazione in Italia? Domanda legittima ed appropriata.

Per oggettive situazioni geografiche, la sola Sicilia – in Italia – sarebbe nelle condizioni più favorevoli per avviare il processo: dunque, si potrebbe fare. Ciò non significa che anche altre aree potrebbero ricevere la nuova tecnologia: semplicemente, più si sale verso Nord, meno diventa conveniente.

Pur con costi superiori (6,5 euro/cent KW/h) potremmo avviare i processi in Sicilia: oltretutto, sarebbe una buona “palestra” prima d’esportare la tecnologia in esame. Quanto – di quei 45 miliardi di euro – potremmo risparmiare realizzando le centrali in Sicilia?

Produrre il 10-20% dell’energia consumata con il sistema termodinamico non è assolutamente una chimera: sarebbe come mettere insieme un paio di “tesoretti” ogni anno senza dover ricorrere alle tasse.

Inoltre, progrediremmo nella fase d’industrializzazione del progetto (magari migliorandolo in corso d’opera, come spesso avviene) e ci sottrarremmo – almeno un poco – ai ricatti energetici, ai quali siamo troppo esposti.

 

Di più sarebbe possibile fare, ma ci esporremmo ad altri rischi.

Siamo storicamente legati ai paesi della sponda Sud del Mediterraneo: già i Romani commerciavano con quelle popolazioni per le spezie, e le “spezie” odierne – se riflettiamo sulla valenza del settore petrolchimico – sono il petrolio ed il gas.

Temo un’Europa coperta di pannelli solari, di varia natura, e d’aerogeneratori, che fosse in grado di coprire l’intero fabbisogno con la produzione in loco: la temo per vari motivi.

Grandi e popolose nazioni – pensiamo all’Algeria – sopravvivono solo grazie alle esportazioni energetiche: quale sarebbe la portata dei flussi migratori, qualora venissero a mancare quegli introiti?

Da sempre, l’Europa è produttrice di beni e l’Africa ed il Medio Oriente sono fornitori di materie prime: se il metodo fosse quello di Mattei – ossia non la rapina, ma il commercio – le due realtà potrebbero convivere in simbiosi, e dunque in pace.

 

Sull’altro versante, non possiamo dimenticare che chi lo tentò – Enrico Mattei – fu sacrificato sull’altare della pura e semplice convenienza economica che negli anni, grazie a strumenti sempre più sofisticati – il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, ecc – si è trasformata in un nuovo colonialismo.

Per questa ragione – di là delle personali convinzioni, che lo vedono poco propenso a tentare nuove strade – Scaroni non può diventare Mattei: correrebbe gli stessi rischi del primo presidente dell’ENI. Peccato che, questa impasse, finirà per condurci alla rovina.

La palla torna dunque nuovamente nelle mani del sistema politico, il quale s’interroga sui massimi sistemi, ossia se il comandante della Guardia di Finanza debba essere un uomo normale o speciale.

Politici “speciali”, come i nostri, non sono probabilmente in grado d’imprimere una positiva accelerazione ai rapporti internazionali, per tracciare un nuovo profilo d’approvvigionamento energetico fra le due sponde del Mediterraneo. Smettiamola d’inviare in giro soltanto soldati: proviamo ad inviare gente che sappia trattare.

Avremmo un disperato bisogno di “normali” politici – di destra e di sinistra – ma di politici capaci.

 

[1] Fonte Televideo 11/3/2007

[2] La TEP (Tonnellata Equivalente di Petrolio) è un’unità di misura che equivale all’energia contenuta in una tonnellata di petrolio. La MTEP corrisponde ad un milione di TEP.

[3] Si tratta di un valore medio, giacché differenti tipi di petrolio hanno diversa densità.

[4] Al cambio di 1,35 dollari per un euro.

[5] La produzione italiana d’energia varia secondo gli anni: tale variazione è dovuta principalmente alla piovosità, giacché la fonte idroelettrica è la principale, mentre il geotermico e le rinnovabili forniscono circa l’1% ciascuna.

[6] IEA: International Energy Agency.

[7] Le precedenti realizzazioni (Saluggia, ecc.) erano poco di più che impianti sperimentali.

[8] Fonte: ENEA, csf.pdf.

[9] Carlo Bertani – Energia, natura e civiltà: un futuro possibile? – Giunti – 2003.

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