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Segnali di fumo da Parigi

Picchia la pecora, per ammansire la capra

Proverbio tibetano

 

Se le parole sono pietre, quelle del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner – che hanno fatto il giro delle principali agenzie planetarie – sono missili: «Il mondo deve prepararsi al peggio…cioè alla guerra.»

E ancora: «Ai piani (militari n. d. A.) ci pensano gli Stati Maggiori». Infine: «Abbiamo già chiesto ad un certo numero di grandi imprese di non investire in Iran.»

Detto così, sembrerebbe l’avvio di un conto alla rovescia nei confronti di Teheran: il che, ha stupito qualche commentatore. Ma come, la Francia non reggeva il ramoscello d’ulivo europeo in contrapposizione alla protervia statunitense?

Le dichiarazioni delle cancellerie internazionali vanno soppesate attentamente: non sono certo roboanti proclami e nemmeno velate minacce. La miglior definizione, che potremmo associare a queste dichiarazioni, è forse quella di “messaggi cifrati”.

Rileggendo attentamente la dichiarazione, salta agli occhi che i “piani militari” citati da Kouchner non sono – per sua stessa bocca – «per domani». E allora?

Se non sono per domani, saranno per dopodomani che – nel linguaggio diplomatico – vuol dire spostare gli eventi di parecchi mesi, più probabilmente di qualche anno.

In effetti, avrebbe poco senso proporre oggi agli USA una strategia comune (e fortemente aggressiva) nei confronti dell’Iran, poiché tutti sanno che Washington – oggi – non si può permettere d’assalire nemmeno San Marino. E, questo, per due sostanziali motivi.

Il primo è l’enorme difficoltà che il Pentagono incontra nel reperire nuove reclute: si ventila l’ipotesi di ripristinare la leva obbligatoria (il che, comporterebbe un inevitabile aumento dell’opposizione interna alla guerra) e si cercano rimedi nel sempre più diffuso ricorso alla Guardia Nazionale ed ai contractors.

Nel suo ultimo discorso, Bush ha posto l’accento sulla difesa dell’Iraq come “avamposto per scongiurare possibili attacchi al suolo americano”. A parte la oramai stantia retorica dell’argomento in sé, questo passaggio è necessario per evitare possibili attacchi sul fronte costituzionale: la Guardia Nazionale è un istituto di difesa del suolo americano (usata anche come strumento di protezione civile) per la quale, l’utilizzo “oversea”, è quanto mai dubbio proprio sotto il profilo costituzionale. Le stesse argomentazioni – ricordiamo – furono usate durante la guerra del Vietnam: dobbiamo stare là per difendere casa nostra. La Corte Suprema può accontentarsi.

La cosa, vista dall’Italia, può sembrare di secondaria importanza ma non dimentichiamo che – nei giorni dell’alluvione di New Orleans – salirono le polemiche per il mancato utilizzo della Guardia Nazionale della Louisiana: difatti, era in Iraq.

La seconda ragione, che ci porta a considerare gli USA come un tigrotto al quale hanno assai limato le unghie, è di natura interna.

Non dimentichiamo che, fra un anno, George W. Bush non sarà più un’anatra zoppa, bensì un’anatra congelata. A quel tempo, ci sarà dura battaglia fra il candidato/a democratico e quello repubblicano.

Negli USA, oggi, parlare di guerra in Iraq non è proprio quello che vi consente d’avere schiere adoranti, buona riuscita con l’altro sesso, credito politico: sorreggere la guerra irachena, oggi, negli USA, puzza di morto.

A differenza del Vietnam – quando c’erano anche considerazioni d’altro genere (morali, politiche, ecc) – oggi, a muovere il contrasto alla guerra è la pura e semplice constatazione che, ogni anno che passa, significa migliaia di ragazzi americani che tornano a casa in un sacco di plastica.

Non cerchiamo troppi parallelismi con il Vietnam: oggi, negli USA, della morte degli iracheni non frega quasi niente a nessuno. L’importante, è il sangue a stelle e strisce.

Di conseguenza, chiunque s’azzardi a gettare in campagna elettorale lo spauracchio di una nuova avventura oltremare, corre il grosso rischio di vedere il proprio elettorato volatilizzarsi. L’imperativo, oggi, è: salvare il salvabile e tornare a casa. Altro che Iran.

E, attenzione, questo vale sia per la parte democratica che per quella repubblicana: anche i candidati repubblicani stanno prendendo le distanze da Bush. Una eventuale nuova avventura in Oriente non sarebbe quindi da “recapitare” all’attuale inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue, ma al suo successore.

Come ricordavamo prima, nella dichiarazione del francese Kouchner, quel “dopodomani” potremmo agevolmente collocarlo fra qualche anno, anche perché l’Iran non sarà in grado di produrre Uranio sufficientemente arricchito per scopi militari se non fra parecchi anni, addirittura un decennio, affermano alcune fonti.

Perché la Francia sceglie questo momento per lanciare la sfida?

Anche in questo caso, per ragioni interne ed internazionali.

Passata la prima infatuazione, appare oggi evidente che Sarkozy sta un poco “scassando i maroni”, soprattutto in Europa. Il cancelliere tedesco Angela Merkel – sia pure con toni mai sopra le righe – ha fatto capire di non gradire troppo il protagonismo del collega francese: saranno entrambi di centro-destra, ma uno è francese e l’altra è tedesca.

L’asse franco-tedesco funziona a patto che non si assumano protagonismi eccessivi, che finirebbero per rispolverare vecchie ruggini. L’equilibrio fu gestito saggiamente da Miterrand e da Kohl, poi da Chirac e da Schroeder: da parte della Merkel c’è tutta la volontà di continuare in quel “solco”, mentre “Sarkò” mostra una veemenza che non è certo gradita a Berlino. Forse, sarebbe meglio – per il presidente francese – rivedere alcune parti della storia del ‘900, perché il rapporto franco-tedesco è sempre stato molto “delicato”.

Ma, si sa, il francese ama un poco mostrarsi “sopra le righe” ed ha voluto rispolverare – forse più una questione d’immagine che altro – un po’ della grandeur che fu del generale De Gaulle: dovrebbe ricordare, però, che De Gaulle aveva accanto la Germania stramazzata a terra di Adenauer, mentre oggi la signora Merkel rappresenta il più potente stato dell’UE.

Non confondiamo queste riflessioni con chissà quali ipotesi di “frizioni” fra Parigi e Berlino: il rischio, è (soltanto!) quello di spaccare l’Europa. La Germania, non dimentichiamo, ha all’est un eventuale partner (la Russia) con il quale già oggi fa affari d’oro e che domani potrebbe diventare qualcosa di più di una semplice missione commerciale.

L’aspetto più interessante della nuova grandeur francese, però, tocca temi internazionali di maggior spessore. Mio Dio, quanto è denso il petrolio, quanto è “spesso”.

Se Berlino ha addirittura inviato un ex cancelliere (Schroeder) a sorvegliare la costruzione del nuovo gasdotto, che porterà il metano siberiano in Germania passando sul fondo del Baltico (ed abbandonando, quindi, al loro destino i gemelli polacchi Kwasniewski e il “terzetto” ucraino Yushchenko, Tymoshenko e Yanukovich), la Francia ha qualcosa da recriminare per quel maledetto 2003, quando gli USA le strapparono il tesoro iracheno.

Per Elf-Total-Fina, quel 2003 è proprio un anno da dimenticare.

Qual era la ripartizione per nazioni dello sfruttamento petrolifero sotto Saddam Hussein? La tabella lo mostra:

 

Giacimento

Stima (miliardi di barili)

Compagnie

Majnoon

30

Francia

Qurnah

15

Russia

Bin Uhmar

6

Francia

Halfaya

2.5

Australia

Suba

2.2

Russia

Nassiryah

2

Italia – Spagna

Gharaf

1

Turchia – Giappone

Ratawi

1

GB - Olanda - Canada - Malesia

Tuba

0.5

India - Algeria - Indonesia

Nord Rumalia

0.4

Russia

Sud Rumalia

0.4

Russia

Al Rafidain

0.3

GB

Amara

0.2

Vietnam

Al Adhab

0.2

Cina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Francia poteva far affidamento su 36 miliardi di barili, che al prezzo odierno (80 $/barile) fanno la rispettabile cifra di 2.880 miliardi di dollari. La Russia su 18 miliardi di barili, che equivalgono a 1.440 miliardi di dollari. Sommando le cifre, arriviamo quasi a 4.320 miliardi di dollari; un bel gruzzolo, niente da dire, soprattutto se lo raffrontiamo alle concessioni USA: zero. Sorpresi per la “strenua” contrarietà alla guerra di Parigi e di Mosca?

La differenza, fra i russi e i francesi, è che i primi sono anche produttori – petrolio, gas e carbone – mentre Parigi importa energia dall’estero e compensa con una forte produzione elettrica di fonte nucleare. In altre parole, la guerra irachena, la crescita cinese e d’altri paesi “emergenti”, le tensioni con l’Iran e le stime sulle riserve di petrolio che restano hanno condotto il colosso russo Gazprom ad essere la seconda realtà industriale del pianeta, alle spalle di Microsoft.

Ci sarebbe da riflettere a lungo su questi due colossi: il primo creatore d’intelligenza artificiale, il secondo dell’energia necessaria per sorreggerla. Potrebbe essere un argomento interessante per un altro articolo.

Va da sé che, se volessimo proprio stabilire chi è rimasto con il classico “cerino” acceso in mano, quella è proprio Parigi: difatti, da qualche anno a questa parte, i colossi dell’acqua francesi (Vivendi, Perrier, ecc) stanno cercando di creare un nuovo monopolio per compensare ciò che fu perso nel mercato petrolifero.

Ciò non significa, però, che non si possano inviare segnali nell’etere che, domani, altri potrebbero raccogliere.

La strana “uscita” del ministro degli esteri francese – se non può essere diretta a George Bush, perché non è più in grado di riceverla – potrebbe diventare interessante per la prossima amministrazione USA. Non scandalizziamoci troppo: se si tratta di petrolio e di dominio neocoloniale, non fa poi tanta differenza fra un Bush ed una Hillary. Non dimentichiamo che la guerra del Vietnam fu iniziata da un presidente democratico (Kennedy) e conclusa da un repubblicano (Nixon): questo, con buona pace di Veltroni e di tutti i “buonisti” del nuovo PD (che sanno poco di storia, oppure fanno finta d’averlo dimenticato).

La partita è dunque molto complessa e si giocherà probabilmente su due tavoli: il primo vedrà gli anglo-americani trattare con Parigi per la “pacificazione” dell’Iraq (e la re-distribuzione delle risorse petrolifere), il secondo “galvanizzerà” il tavolo russo-tedesco, dove – con ogni probabilità – i russi potranno alzare la posta.

Già, ma quali russi?

Anche Vladimir Putin è in dirittura d’arrivo ma – a differenza di Bush – non uscirà dalla porta di servizio dello stadio, bensì farà il giro d’onore prima di lasciare ad altri. Lascerà Putin? Sarà vero?

Sotto l’aspetto formale, così sarà, ma attendersi che Vladimir – a 55 anni – vada ad “accomodarsi in dacia” non mi sembra un’ipotesi fra le più gettonate.

Le recenti dimissioni del primo ministro Mikhail Fradkov e la repentina elezione – con la benedizione del Cremlino – dello sconosciuto (e debole) Viktor Zubkov, che non ha nascosto di mirare alla presidenza nel 2008, fanno intendere che il “gruppo di San Pietroburgo” (forse, sarebbe più corretto dire “di Leningrado”) ha il pieno potere sulla Russia.

Con un presidente debole per quattro anni – che nel 2012 avrebbe 70 anni, un matusalemme per la nuova leadership russa – Putin, Ivanov ed i poteri forti del Cremlino hanno tutte le vie aperte: un ritorno sulla scena di Putin nel 2012, a 59 anni, magari “a furor di popolo”, oppure un discreto manovrare dietro le quinte.

Il potere russo è tornato, praticamente, ad essere nelle mani del nuovo “Soviet Supremo” insediato al Cremlino: è mutata solo qualche sigla. La cosa sembra dar molto fastidio in Occidente, ma non ai russi, che ricordano invece gli anni di “avvicinamento” all’Occidente – l’era di Eltsin – come un incubo.

La mossa francese sembra quindi interlocutoria nei confronti di Washington: molto probabilmente, si sta già trattando non tanto sull’Iran – quella è una storia da prendere con le molle, che fa paura sia a Parigi che a Washington – ma sul futuro assetto dell’Iraq.

Nonostante tutti gli sforzi di Halliburton (Cheney), la produzione di greggio irachena non decolla: quando giunsero gli americani, era ai minimi storici a causa del lungo embargo.

In buona sostanza, gli USA ereditarono un apparato petrolifero vecchio e fatiscente, con pozzi in gran parte insabbiati, trasporti e pipeline fuori uso.

Per rimettere in sesto un simile disastro, sarebbero stati necessari anni di lavoro in una situazione tranquilla: si parla poco – in Occidente – degli attentati contro le strutture petrolifere in Iraq, ma dal 2003 sono stati uno stillicidio.

Gran parte dei contractors assunti dall’amministrazione USA servono proprio al controllo delle installazioni petrolifere, perché sono strutture delicate che, con poche risorse belliche (semplice esplosivo), sono messe fuori uso per lungo tempo.

Tutto ruota perciò intorno alla capacità di controllare il territorio, senza la quale nessun progetto petrolifero serio può decollare.

La recente uscita dal governo iracheno di Moqtada al Sadr fa presagire che gli equilibri interni stiano mutando: dopo aver appoggiato per anni la fazione sciita (ed aver constatato d’aver realizzato la profezia di Bush padre, ossia di regalare su un piatto d’argento l’Iraq a Teheran), forse oggi gli americano tentano un riavvicinamento con la fazione sunnita.

Per mettere a posto le cose ci vorrebbe un bel Saddam Hussein – sciita o sunnita – con tanto d’esercito fedele e polizia segreta per mantenere stabilità al potere: l’hanno impiccato, e adesso non è facile trovarne un altro con le sue doti. La “macchinetta” che sforna i Saddam non replica tutti i giorni: anche per fare il dittatore, bisogna avere una certa “formazione” – diremmo in Occidente – e i vari politici iracheni che s’avvicendano al potere sembrano tante marionette senza spina dorsale.

L’unica soluzione, allora, per mettere a posto petrolio e stabilità, passa per il tanto vituperato ONU, che “baffone” Bolton cercò per anni di delegittimare. Insomma, la solita storia: caschi blu prelevati da mezzo (terzo) mondo e comandi Occidentali.

Già, ma chi comanda?

Una forza ONU dovrebbe non dover patire lo stillicidio d’attentati che gli americani stanno subendo, altrimenti non cambierebbe niente.

Per prima cosa, allora, dovrebbe cessare qualsiasi appoggio alla guerriglia – palese o nascosto – da parte di chi la rifornisce di armi, denaro, informazioni. A meno di credere che la guerriglia irachena sia il frutto di quattro scalzacani ben determinati, i quali – ricevendo soltanto aiuti da qualche povero paese arabo – tengano in scacco il più potente esercito del mondo.

Liberi di credere anche a Biancaneve, ma ricordiamo che i vietcong ressero per molti anni grazie a costanti rifornimenti russi e cinesi.

Terminata la sciagurata avventura di Bush, l’unità degli ex colonizzatori potrebbe essere ritrovata sulla base di una re-distribuzione delle ricchezze petrolifere del paese. Il processo è in atto: i francesi sono tornati in Libano (ancora una volta…) e, da qui, potrebbe ripartire un secondo “Trattato di Sèvres”, con la ripartizione d’alcune sfere d’influenza (e i relativi proventi petroliferi).

E’ presto per affermare se questo piano sia attuabile, anche perché siamo soltanto ad una prima fase – interlocutoria – ma la stranissima affermazione del ministro francese non può, a mio avviso, essere altrimenti interpretata. Tanto meno, nel senso letterale: dopo lo sconquasso finanziario causato dalle note vicende americane dei mutui subprime, con il prezzo del greggio che “vola” verso i 90 $/barile, ci aggiungiamo un bel attacco all’Iran? Vogliamo proprio veder affondare l’economia mondiale? Oppure giocare tutto sull’economia di guerra? I tempi non sono ancora maturi: gli equilibri economici consentono ancora lauti guadagni.

No, signori miei, saranno pure dei maledetti assassini, ma non sono dei folli: l’imperativo – oggi – è stabilizzare, non destabilizzare.

La nuova “stabilizzazione” passa proprio per una riunificazione dell’unità fra le potenze colonizzatrici, ovviamente con rinnovati equilibri di potenza: come a  Suez nel 1956 – quando gli USA lasciarono al loro destino Francia e Gran Bretagna, imponendo così il loro primato anche nell’area da sempre controllata dalle potenze europee – oppure come per l’Iran nel 1953, quando gli USA giunsero in aiuto della Anglo-Iranian Oil Company, nazionalizzata da Mossadeq, e risolsero tutto con il classico colpo di stato.

In questa lunga vicenda, USA, GB e Francia giocano da almeno un secolo una partita che le vede unite nei loro intenti (sorrette, in questo senso, dalla sostanziale unità delle borghesie finanziarie) e in competizione fra di loro (a causa dell’apparente competizione fra le rispettive borghesie nazionali): la più classica delle contraddizioni del mondo capitalista. La soglia della guerra – non dimentichiamo – viene oltrepassata soltanto quando quelle contraddizioni non sono più sanabili e, anche in piena guerra, le borghesie continuano in qualche modo a lucrare: l’esempio degli “sporchi affari” fra Thyssen (grande “elettore” di Hitler) e Prescott Sheldon Bush (nonno dell’attuale presidente) con il Terzo Reich lo dimostrano.

Possiamo comprendere meglio la contraddizione se analizziamo alcuni eventi che stanno accadendo proprio di questi tempi: la recante “multa” comminata dall’UE a Microsoft – di là delle motivazioni giuridiche, più o meno plausibili – testimonia attrito fra le due sponde dell’Atlantico. Altri esempi sono i frequenti dissidi interni al WTO, come la questione dei dazi sull’acciaio, lo spionaggio industriale operato mediante Echelon ed altri mezzi per acquisire posizioni di mercato dominanti: insomma, fra Washington e Bruxelles c’è sempre lotta per favorire alcuni a scapito di altri. Sull’altro versante – soprattutto a causa della sempre maggior internazionalizzazione del capitale – prevalgono le scelte di conservazione del quadro d’insieme: la FED e la BCE, per compensare i danni causati dalla nota vicenda dei mutui americani, hanno immesso nel circuito bancario qualcosa come 350 miliardi di euro (pressappoco 100 la FED e 250 la BCE). Cosa significa?

Vuol dire che, all’interno di un quadro d’insieme, è permessa la competizione – e passi pure qualche colpo basso – ma non si deve mettere in discussione la sostanziale unità dei capitalisti nei confronti dei lavoratori, dei paesi più poveri, di tutti coloro che non vivono di finanza.

Le guerre – le vere guerre – scoppiano quando viene messo in discussione proprio il quadro generale degli scambi all’interno del capitalismo internazionale: per ben due volte, fu la Germania a mettere in forse il potere commerciale e marittimo degli Angli sul pianeta.

La storia si ripete – qualcuno afferma – ma sempre con scenari mutati. Altri teatri di posa stanno nascendo: cosa farà la Groenlandia? Si staccherà definitivamente dalla Danimarca? La partita dell’Artico (ancora petrolio) si giocherà a due (USA e Russia) o a tre (USA, Russia ed UE)? E con quale unità europea? Con un asse franco-tedesco o due distinti assi, quello franco-britannico e quello russo-tedesco?

Come si può notare, l’apparente “nota stonata” della dichiarazione francese, assume senso soltanto se la proiettiamo in un palcoscenico dove gli attori stanno improvvisando una nuova rappresentazione: per ora si tratta soltanto della classica “battuta ad effetto”, per osservare l’effetto che fa e verificare se – chi “di dovere” – risponde al richiamo.

Nel pieno rispetto della sua tradizione storica, l’Italia ondeggia fra le odierne “Triplici” alleanze ed intese: legata al carro russo-tedesco – con gli accordi economici concordati fra Putin e Prodi e la recente dichiarazione di D’Alema, che sminuisce la boutade francese – oppure pronta ad un nuovo asservimento verso gli USA, qualora tornasse a regnare il centro-destra.

Niente, però, di così determinante e di non ritrattabile per entrambi gli schieramenti: un po’ di Dal Molin da un lato e una visita ad Hezbollah dall’altra, tanto per poter cambiare cavallo quando occorre. La tradizione, anzitutto.

L’unica cosa che possiamo fare noi italiani è non cascare nell’inganno delle mille sigle che si celano dietro a fantomatiche “fondazioni” estere, commentatori dai nomi astrusi e “gole profonde” che, resuscitando confidenze apocalittiche, cercano di propinarci uno schema, ahimé, troppo semplice: una sorta di “partita” di calcio con americani da un lato e tutti gli altri dall’altra, con attacchi all’Iran imminenti e flotte pronte a prendere il mare. La partita non è USA-Resto del Mondo: la vera partita è più sfumata, fra più attori, ma non meno pericolosa. Solo l’analisi storica consente di guardare oltre l’orizzonte con la certezza di non compiere troppi errori di valutazione: se ci lasciamo trasportare dall’onda delle notizie, dimentichiamo che la maggior parte delle news sono lanciate nei circuiti internazionali per precisi scopi di parte, non per informare.

Fin quando reggerà la sostanziale unità degli ex colonizzatori, ed accordi soddisfacenti con lo sterminato pianeta russo, cinese ed indiano, nessuno si sognerà di dare un calcio a commerci lucrosi, ad una stabilità che consente ricchezza per l’Occidente e fame per molti.

Nemmeno i danni causati da Bush all’economia americana sono sufficienti per rischiare il tutto per tutto, gettando il dado della guerra: combineranno qualche nuova marachella finanziaria, abbasseranno ulteriormente i salari minimi, aumenteranno le esecuzioni capitali e i locali di strip-tease. Paradossalmente, nemmeno uno sciagurato come Bush è riuscito a stramazzare gli USA: molto indeboliti, certo, ma non al tappeto.

Il peggior rischio corso da Bush – con le sue scelte unipolari – è stato mettere in dubbio accordi che duravano da almeno un secolo, ma la meteora-Bush sta oramai svanendo: stiamo attenti, invece, soprattutto all’Artico, alla questione di Kaliningrad ed a Taiwan. Quelli sì che sono problemi rischiosi, micce e depositi di polvere che possono far saltare il mondo: altro che le “di là da venire” atomiche iraniane…

 

 

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