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Il futuro dei trasporti

 

Les inventions qui ne sont pas connues ont toujours plus de censeurs que d'approbateurs: on blâme ceux qui les ont trouvées parce qu'on n'en a pas une parfaite intelligence: et, par un injuste préjugé, la difficulté que l'on s'imagine aux choses extraordinaires, fait qu'au lieu de les considérer pour les estimer. on les accuse d'impossibilité, afin de les rejeter ensuite comme impertinentes.

Le invenzioni che non sono conosciute trovano sempre più critici che sostenitori: costoro incolpano quelli che le hanno scoperte perché hanno una visione limitata e, partendo da un ingiusto pregiudizio, la difficoltà che incontrano nel pensare a cose straordinarie fa sì che, invece di valutarle per stimarli, li accusino d’irrealizzabilità al fine di rifiutarli come presuntuosi.

Blaise Pascal

La machine d'arithmétique (1645)

 

Un po’ di storia

 

Sembra quasi un gioco di parole, eppure per iniziare a capire qualcosa del mondo dei trasporti, per guardare avanti, dobbiamo andare a ritroso come i gamberi, guardarci alle spalle: solo la storia ci può aiutare a fare il punto dell’oggi, per trovare soluzioni al difficile domani che ci attende.

Inutile però andare troppo indietro: le civiltà primitive erano quasi totalmente autarchiche e, di conseguenza, non esistevano trasporti che andavano oltre lo spostare legname, pelli e granaglie dal campo al villaggio, al massimo da un villaggio all’altro.

Pur esistendo già il trasporto delle merci non esisteva un sistema di trasporto, vale a dire un’organizzazione che cercava di risolvere il problema dei trasporti su un modello pensato, sperimentato e raffinato nell’esperienza.

Se riflettiamo un attimo, non possiamo ritenere un sistema di trasporto lo scambio di merci fra villaggi attigui, giacché manca un presupposto essenziale: la regolarità, intesa come persone e mezzi che si dedicavano espressamente e costantemente all’attività.

I primi trasporti organizzati dei quali abbiamo notizie meno vaghe risalgono agli Egizi: il materiale da costruzione per le piramidi, l’oro e molti minerali provenivano dalle miniere dalla Nubia, così come gli schiavi, e la navigazione sul Nilo fu l’arteria che consentì ai Faraoni di regnare su un territorio non vastissimo, ma che aveva già tutti i connotati di un’embrionale entità statuale.

Purtroppo sappiamo assai poco di quanto avveniva, parallelamente, in Oriente: il più antico impero del pianeta fu quello cinese ma anche in Cina – come in India – la grande frammentazione del potere, dovuta agli enormi spazi, condusse probabilmente più all’autarchia che allo scambio organizzato su vasta scala.

Non si può negare a priori che le giunche cinesi abbiano navigato il Mar Cinese meridionale, forse fino alle acque indonesiane, ma ci è giunto troppo poco per trarre delle conclusioni valide e sensate.

Queste grandi, antiche civiltà, dimostrarono i loro limiti nella misura in cui non seppero organizzare niente più che un sistema di scambio interno ai confini: né gli egizi né i cinesi si avventurarono lontano dalle coste.

Qualche cronaca pare concedere agli egizi la navigazione lungo le coste dell’Africa Orientale, come la spedizione organizzata durante il regno della regina Hatsetspowe (1496-1476 a.C.) nella terra di Punt (probabilmente l’attuale Somalia), ma si trattò di un’avventurosa ed unica impresa, che non condusse ad alcun risultato pratico.

Tutti i testi ricordano però i Fenici, e generazioni di studenti hanno studiato il “popolo del mare” pensando ad essi come agli antesignani delle moderne compagnie marittime. Pur non sottovalutando l’importanza dei Fenici, dobbiamo riconoscere che si trattava di commercianti che usavano la navigazione per raggiungere i loro scopi: non c’era alcun sistema di trasporto organizzato, bensì solo la vocazione marittima di un popolo che, sulla terraferma, aveva scarse probabilità di sopravvivere, schiacciato com’era fra grandi imperi, Ittiti ed Egizi.

I Greci dovettero affrontare il problema del trasporto, giacché la parte insulare della loro civiltà era molto importante, così come le colonie della Magna Grecia: Sicilia, Calabria, Lucania. Le navi onerarie greche solcarono a lungo il Mediterraneo, e proprio i fortunati ritrovamenti di navi affondate ci hanno consegnato magnifici esemplari artistici di quella splendida civiltà, basti pensare ai Bronzi di Riace.

Il limite dei Greci fu la grande frammentazione del potere in un territorio abbastanza ristretto: non riuscirono mai ad andare oltre la concezione della “città stato” e, di conseguenza, anche il sistema di trasporto era frammentato dalle molte divisioni politiche fra le polis.

 

Per trovare qualcosa che assomigli all’odierno sistema dei trasporti con tutti i suoi attributi, vale a dire un solido potere politico, un’organizzazione sociale complessa, un commercio sviluppato e forze armate in grado di proteggere il tutto dobbiamo rivolgerci ai Romani.

I resti di navi onerarie romane affondate in ogni angolo del Mediterraneo (più quelle colate a picco su alti fondali, delle quali non siamo a conoscenza) testimoniano l’importanza che i romani assegnavano al trasporto marittimo.

Inoltre, sulla terraferma, un sistema – mai eguagliato nell’antichità – di strade consolari, ponti, acquedotti e stazioni di posta testimoniano che non siamo in presenza dei resti di qualche nave affondata, bensì delle vestigia di un sistema organizzato ed interconnesso di trasporto, terrestre e marittimo.

Il sistema di trasporto marittimo romano possedeva la stessa impronta, la stessa filosofia di base dell’attuale organizzazione internazionale di spedizione nei cinque continenti: differivano, ovviamente, lo scenario, i limiti geografici, i mezzi ed i tempi di percorrenza, ma lo schema era essenzialmente lo stesso.

La nave oneraria romana non era un capolavoro d’architettura navale: pochi secoli dopo, sia gli arabi sia i Vichinghi costruirono veri e propri “levrieri del mare”, sciabecchi e drakkar, al confronto dei quali la nave romana aveva l’idrodinamica di una papera.

Ciò che invece rendeva la nave oneraria romana modernissima era il sistema studiato per il trasporto delle merci più importanti del mondo antico: granaglie, olio e vino. I protagonisti di questa vera e propria “fantascienza dell’antichità” furono due: il pianale di carico e l’anfora.

Appena sopra la chiglia, sotto la linea di galleggiamento, c’era il ponte principale, steso su bagli e madieri: anche se non si conoscevano ancora i principi basilari dell’architettura navale (baricentro, altezza metacentrica, ecc.), probabilmente l’esperienza maturata dalla sperimentazione condusse a collocare in basso il ponte di carico.

Ovviamente, tutti i reperti di navi romane affondate non consentono di verificare con precisione l’architettura navale romana, giacché le parti lignee sono andate completamente perdute. Il ritrovamento della nave di Nemi (1927) condusse a recuperare l’unico esemplare di nave romana sufficientemente conservata. Purtroppo si trattava di un natante lacustre, adibito probabilmente a scopi rituali, e quindi non corrispondente perfettamente alle contemporanee navi onerarie: pensarono in ogni caso le truppe tedesche in ritirata, nel 1943, ad incendiare la nave ed il museo che la ospitava, cancellando così l’unico reperto attendibile di nave romana.

Ciò nonostante, l’attenta osservazione della disposizione del carico, le parti metalliche recuperate e la comparazione fra i molti relitti identificati e studiati ha condotto a ricostruire con sufficiente approssimazione l’architettura della nave oneraria romana e, soprattutto, del suo ponte di carico.

La particolarità di questo ponte era molto probabilmente quella d’essere bucato, ad intervalli regolari, con fori di qualche centimetro di diametro; ebbene, quei fori erano la connessione fra la nave e l’altro, importante protagonista del sistema di trasporto marittimo romano: l’anfora.

Le anfore romane non avevano base piana, bensì terminavano con una punta del diametro di pochi centimetri: l’esatta misura per essere incastrate nei fori del ponte. Poiché le anfore avevano un diametro standard, e le distanze fra i fori erano le stesse, le anfore erano incastrate nei fori del ponte: una volta completato il carico e cinto probabilmente il perimetro esterno con un grosso canapo, il carico si comportava come un tutt’uno, senza pericolo di movimenti, perdite o rotture.

Ma le sorprese non terminano qui. La maggior parte delle anfore romane avevano una bocca abbastanza ampia, sufficiente per farci entrare anche alimenti solidi, granaglie e frutta secca: sono stati ritrovati carichi di cereali, legumi, nocciole oltre, ovviamente, all’olio ed al vino.

Cos’erano allora, sostanzialmente, le anfore romane? Erano il corrispettivo, nel loro sistema di trasporto, degli odierni container, nei quali le merci non viaggiano più alla rinfusa ma all’interno di questi grandi contenitori che, si badi bene, hanno anch’essi dimensioni standard, la stessa altezza e larghezza e due diverse lunghezze (multiple l’una dell’altra): 20 e 40 piedi anglosassoni (circa 6 e 12 metri) per i tipi più comuni.

Questa impostazione velocizzava probabilmente le operazioni di carico e scarico e, verosimilmente, la successiva distribuzione sul territorio lungo le vie consolari.

Oggi, le operazioni di carico e scarico sono completamente meccanizzate, e l’uomo interviene soltanto per manovrare e controllare il funzionamento delle gru: le dimensioni standard dei container facilitano enormemente le operazioni di trasferimento sui carri ferroviari e sui pianali degli autocarri.

Nel sistema romano il carico e lo scarico delle anfore era completamente manuale, ma due fattori rendevano funzionale il metodo: la dimensione standard dei contenitori e la grande abbondanza di schiavi.

Se paragoniamo la forza muscolare degli schiavi (a basso costo) con gli attuali mezzi meccanici (anch’essi a basso costo, rispetto ad improponibili operazioni manuali), non ci sono differenze sostanziali fra i due metodi: la filosofia di progetto, a ben vedere, è la stessa.

 

Mentre la scoperta di molti relitti navali ci ha permesso di ricostruire con sufficienti certezze l’apparato marittimo romano, il trasporto viario presenta maggiori lacune, giacché non ci sono giunti reperti attendibili di carri romani da trasporto.

Non è irrealistico immaginare, però, che le stesse anfore prendessero posto sui carri con lo stesso metodo dei pianali forati o con qualcosa di simile: il grande sviluppo e la relativa modernità del sistema viario romano testimoniano ben altro che semplici fori su pianali di legno.

Per la prima volta nella storia siamo quindi di fronte ad un sistema complesso ed organizzato, almeno per gli aspetti tecnici: e l’organizzazione logistica?

Il centro dell’Impero corrispondeva ai vertici dell’organizzazione dei trasporti, come fu Londra per l’impero britannico; Roma (come, del resto, anche Londra) distava dal mare qualche decina di chilometri (oggi, a causa dei depositi alluvionali del Tevere, un po’ di più) e qui incontriamo l’importanza di Ostia Antica: la “succursale” del potere marittimo romano.

Gli scavi archeologici di Ostia Antica sono tuttora in corso, ma già ciò che è comparso è sufficiente per delineare l’organizzazione logistica.

Ostia Antica stava a Roma come il porto di Leith sta ad Edimburgo, come Trieste fu il porto commerciale dell’impero austro-ungarico, Genova per il “triangolo industriale” del nord-ovest italiano e ci sarebbero molti altri esempi da considerare.

La città aveva la precipua funzione di gestire le attività marittime e nautiche dell’impero: lì avevano sedi e magazzini ricchi commercianti che potremmo paragonare, per le loro funzioni, alle odierne compagnie marittime.

Non possiamo dimenticare un ulteriore, importante fattore in quel sistema di trasporto: la protezione che fornivano legioni e flotte ai trasporti e, lungo i secoli dell’età aurea di Roma, le rotte marittime e le vie consolari furono luoghi sicuri, dove solo occasionalmente si poteva correre il rischio di brutti incontri. Forse, si era più sicuri allora di quanto non si è oggi di notte su un tratto autostradale secondario.

Qui comprendiamo l’importanza del fattore sicurezza nei trasporti: con la caduta dell’Impero Romano, il grande complesso marittimo e viario – che era in grado di consegnare a Roma migliaia di fiere per gli spettacoli circensi e spostava migliaia di tonnellate di generi alimentari da un capo all’altro del Mediterraneo, fino al nord Europa – collassò.

La mancanza di sicurezza e protezione delle vie commerciali favorì il crollo del sistema imperiale, e da qual tempo lontano ci sono giunte grida di dolore ed apprensione negli scritti lasciati da famosi cronisti dell’epoca.

Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, sul finire del IV secolo d.C. scriveva «semirutarum urbium cadavera»; Commodiano, a proposito delle calate dei barbari, affermava «vastantur patriae, prosternitur civitas omnis» ed un anonimo dell’epoca concludeva «omnia in finem precipitata ruunt».

Un quadro apocalittico, che conduce ad una conclusione: qualsiasi sistema di trasporto organizzato deve avere alle spalle un’organizzazione politica e sociale stabile giacché, come tutti i sistemi complessi, è assai vulnerabile.

I secoli bui che seguirono videro il progressivo abbandono e deterioramento della rete viaria romana che, senza una manutenzione programmata nel tempo, divenne progressivamente inservibile.

 

Il Medio Evo portò ad importanti innovazioni tecnologiche (che la stabilità del mondo antico non afferrava), come i miglioramenti nella bardatura dei cavalli da tiro avvenuta nei primissimi secoli del nuovo millennio: nel nuovo metodo il punto dove si scaricava lo sforzo di trazione erano le spalle degli equini, non più la base del collo, e ciò condusse quasi a raddoppiare la potenza di trazione dello stesso animale.

Nonostante questi miglioramenti tecnici non esisteva più alcun sistema di trasporto organizzato, né sulla terraferma né sul mare dove, ai primi miglioramenti nelle attrezzature veliche, faceva da contrappeso il flagello della pirateria moresca.

Paradossalmente, questi due fattori, l’inservibilità di gran parte della rete viaria e l’aumento della trazione per singolo animale, portarono allo sviluppo della navigazione interna: fiumi e, soprattutto, canali furono abbozzati e poi, via via, ampliati ed ammodernati nel Rinascimento.

Il trasporto avveniva su chiatte a fondo piatto e la trazione era fornita da cavalli o buoi che, muovendosi su strade sterrate (alzaie) sulle rive dei canali o sugli argini, tramite un lungo canapo trainavano i natanti.

La valle padana fu la culla di quelle nuove esperienze: ancora oggi, nomi come Naviglio Grande, Naviglio Pavese, Canal Bianco e tanti altri, ci ricordano come i nostri progenitori, facendo di necessità virtù, inaugurarono un nuovo mezzo di trasporto.

Ovviamente, le regioni europee che disponevano di grandi fiumi dalla corrente lenta, come il Reno ed il Danubio, si trovarono in posizione avvantaggiata rispetto alla stretta valle padana anche se, per quei territori, non si trattava di una novità: i grandi fiumi erano già usati per il trasporto nel mondo antico.

Anche la propulsione differiva: nella valle padana, pressoché priva di un regime dei venti, fu giocoforza affidarsi alla trazione animale mentre, negli altri grandi fiumi europei, per alcuni tratti era possibile sfruttare la forza del vento.

Mille anni dopo la caduta dell’Impero Romano si tornò, timidamente, ad abbozzare linee commerciali e di trasporto meno instabili, ma ormai il mondo era maturo per l’ingresso in scena del grande protagonista: Cristoforo Colombo.

 

Il grande navigatore probabilmente non immaginava quanto sarebbe stato importante il suo viaggio per l’umanità: metaforicamente, mentre le tre caravelle salutavano il castello dei Duchi di Medina-Sindonia – a Sanlucàr de Barrameda, sul Guadalquivir – e s’inoltravano all’alba nelle acque marine presso Palos, tutta l’umanità era su quei fragili ponti.

Dopo la prima, avventurosa fase di scoperta del Nuovo Mondo, nel Cinquecento s’iniziò ad inventariare ciò che da quelle lontane regioni poteva essere portato in Europa per la gioia delle aristocrazie (e per rimpinguare le sempre smunte casse statali).

Gli iberici furono i primi ad intessere rapporti con le nuove terre: non solo il continente americano, ma anche le isole dell’Oceano Indiano, che i navigatori portoghesi avevano raggiunto doppiando il periglioso Capo di Buona Speranza.

Il continente americano, per quasi due secoli, non conobbe quasi colonizzazione: salvo ristrette aree costiere, il resto dello sconfinato continente rimase quello che era prima di Colombo.

Le merci che provenivano dai lontani territori non potevano essere che prodotti particolarmente preziosi, vista la precarietà delle prime traversate oceaniche e la scarsa portata del naviglio: oro, argento, pietre preziose e spezie.

Proprio le spezie furono il grande “motore” che innescò la successiva formazione delle compagnie di navigazione, giacché il loro commercio, per l’Europa, era di vitale importanza. I campi d’impiego erano molti: la conservazione dei cibi, senza l’ausilio dei moderni refrigeratori, era un problema assillante e non sempre i cibi conservati con mezzi rudimentali (salatura, affumicatura, ecc.) conservavano ancora un barlume del sapore originario.

Le spezie intervenivano allora, oltre che nella conservazione, anche per “coprire” gusti indesiderati: anche il vino, senza le moderne tecniche di conservazione, spesso inacidiva ed allora intervenivano nuovamente le spezie a “rabbonire” gusti stantii.

La farmacopea, poi, si avvaleva quasi completamente di erbe e spezie: mescolando questi ingredienti i medici dell’epoca creavano medicinali e pozioni, mentre le resine d’alcuni alberi tropicali costituirono i primordi della moderna chimica industriale.

 

Il principale problema nel commercio delle spezie erano gli intermediari arabi: tutta la costa est del Mediterraneo era occupata dai Mori dei potenti califfati arabi, ed i commercianti musulmani non si facevano certo scrupoli ad approfittare della situazione, comprando le merci a basso prezzo nelle isole dell’Oceano Indiano e rivendendole a peso d’oro.

La storia delle grandi esplorazioni oceaniche è tutta qui: sia i portoghesi (sulla rotta del Capo di Buona Speranza), sia gli spagnoli sull’incerta rotta verso ovest, si proponevano di raggiungere le isole delle spezie per acquistare direttamente dai produttori, saltando gli intermediari arabi.

La grande spedizione di Magellano, finanziata dalla corona spagnola, aveva lo scopo di raggiungere finalmente le Molucche con rotta ovest e riempire le stive di profumate spezie in cambio di paccottiglia senza valore.

Delle cinque navi che originariamente compirono la crociera solo una, la Victoria, rientrò in patria con una manciata di uomini mezzi morti per le malattie tropicali e lo scafo che faceva acqua da tutte le parti, dopo aver perso in una scaramuccia con i nativi lo stesso comandante della spedizione: eppure, la sola vendita del carico residuo della nave ripagò ampiamente l’investimento degli armatori.

 

La Spagna, però, aveva puntato gli occhi su ben altri tesori; la ferocia e la determinazione delle soldataglie spagnole in America del Sud avevano un solo scopo: l’oro.

L’oro delle Americhe, spogliato alle popolazioni indigene, provocò forse più mali che benefici: fu veramente oro maledetto.

I naufragi dei galeoni spagnoli furono innumerevoli, dovuti ai terribili fortunali tropicali ed all’opera di pirati e corsari: ancora oggi, compagnie specializzate si dedicano al recupero dei carichi affondati, spesso con forti guadagni.

Giunto in Europa, però, l’oro spagnolo provocò un generale deprezzamento delle monete (che ancoravano il loro valore all’oro) ed il primo caos monetario della storia, con conseguente crollo dei prezzi e sconvolgimenti economici e sociali.

 

Fino alla metà del Seicento le spedizioni in cerca d’oro, argento e spezie furono episodi slegati: gli oceani furono solcati da centinaia di navi in cerca di tesori ma senza un’organizzazione che sovrintendesse al commercio ed al trasporto.

Il grande mutamento avvenne con la nascita delle Compagnie delle Indie (Olandese ed Inglese): dopo più di mille anni dalla scomparsa delle navi onerarie romane, compariva nuovamente una struttura organizzata che gestiva commerci e trasporti, ormai quasi a livello planetario.

Le Compagnie erano finanziate dai più potenti banchieri del tempo, giacché i profitti che era possibile ottenere grazie ad una gestione organizzata erano astronomici.

I profitti diedero impulso alla cantieristica navale, ed il naviglio raggiunse dimensioni notevoli: si passò dalle 250 tonnellate di dislocamento della Santa Maria (Spagna, 1480) alle 976 del Revenge (Inghilterra, 1560), alle 1140 del Vasa (Svezia, 1627) fino alle 2130 del Royal Louis (Francia, 1692). In due secoli le navi avevano incrementato il dislocamento di circa il 900% ed erano diventate, da gusci di noce in balia dell’oceano, velieri in grado di superare tempeste e lunghe navigazioni.

L’antica anfora romana trovò il corrispettivo nel barile come contenitore standard: in ogni equipaggio era previsto (fino alla prima guerra mondiale!) un mastro bottaio con numerosi aiutanti.

La botte, rispetto all’anfora, presentava alcuni vantaggi; era, a differenza dell’anfora, riparabile e di più facile riempimento inoltre, per il carico e lo scarico, aveva un secondo notevole vantaggio: rotolava.

Non esistendo più legioni di schiavi da adibire al carico ed allo scarico delle navi, il nuovo sistema presentava notevoli vantaggi: le botti erano sollevate dalla stiva grazie ad argani e poi venivano fatte rotolare fino a terra su letti di assi, ed i risparmi di tempo (immobilizzo del naviglio) e costi (il personale di terra, non costosissimo, ma che andava comunque pagato) moltiplicarono i profitti e l’efficienza del sistema.

Le grandi battaglie navali del XVII secolo nel Mare del Nord, fra gli olandesi di De Ruyter e gli inglesi di Monck, futuro duca di Albemarle, ebbero ragion d’essere solo in funzione della concorrenza che le compagnie si facevano (anche a suon di cannonate) per il commercio delle spezie.

Sotto l’aspetto tecnologico, possiamo affermare che la marineria del XVII secolo era notevolmente più evoluta di quella romana: il galeone a più ponti, pur non essendo ancora in grado di risalire il vento, era un veliero che poteva stipare dieci volte il carico di una nave oneraria romana e navigare ad una velocità doppia.

L’attrezzatura velica con tre alberi, ognuno dei quali giungeva ad avere fino a cinque pennoni, forniva una propulsione affidabile e, salvo in alcuni bacini ristretti come il Baltico e l’Adriatico, il remo scomparve come mezzo di propulsione ausiliario.

Ciò che invece rendeva quel sistema vulnerabile, rispetto ai Romani, era la frammentazione del potere politico e la conseguente insufficiente sicurezza lungo le rotte oceaniche.

La pirateria delle Antille, ricordata in tanti film di successo, era solo un aspetto del problema: le stesse case regnanti concedevano “patenti di corsa”, vale a dire permessi di assalire il naviglio avversario, a comandanti ed avventurieri senza scrupoli.

La stessa incertezza fu alla base dello sviluppo del trasporto terrestre su basi nazionali: Francia ed Inghilterra ebbero nuovamente sistemi postali organizzati, con un incremento della rete viaria e dei manufatti (ponti, stazioni di posta, alloggi, ecc.) necessari al funzionamento della rete, mentre le zone più povere ed arretrate d’Europa, con sistemi politici meno stabili (il sud, i Balcani, ecc.), scontarono un notevole ritardo.

La mancanza di un unico centro politico rallentò i collegamenti fra gli stati europei: non esisteva più un’unica entità, politica, culturale e militare cui fare riferimento (Roma), e la velocità dei trasferimenti sulla terraferma rimase pressoché quella dei Romani.

 

Mentre sulla terraferma i progressi erano lenti, sul mare la potenza britannica si affermò definitivamente nel XVIII secolo: i viaggi di Cook presentano, per alcuni aspetti, la stessa importanza di quelli di Colombo o di Magellano.

Le sue spedizioni nel Pacifico, infatti, non furono missioni commerciali, bensì geografiche e naturalistiche: la Gran Bretagna, dopo aver raggiunto l’indiscusso primato sui mari, come potenza imperiale si preoccupava d’incrementare le conoscenze sulla biologia, la geologia e l’antropologia di quelle lontane regioni, sapendo che ne sarebbero derivati sicuri vantaggi per i propri interessi commerciali.

Le spedizioni di Cook furono anche il primo tentativo di pianificazione scientifica di una spedizione marittima: sulle navi vi erano medici e naturalisti e, per la prima volta nella storia della navigazione, si scongiurarono gli effetti dello scorbuto imbarcando grandi quantità d’agrumi.

La tecnologia iniziava ormai ad affermarsi anche su quei pochi metri di fasciame che si avventuravano nei vasti oceani; il sestante consentiva ormai di calcolare la latitudine con ragionevole precisione, e l’uso dei cronometri consentì di risolvere l’annoso problema della navigazione d’altura: il calcolo della longitudine[1].

Possiamo valutare l’importanza dell’Impero Britannico da un particolare: il meridiano di Greenwich (sobborgo di Londra) è considerato tuttora “l’ora zero”, alla quale tutti gli altri fusi orari aggiungono o detraggono la differenza in longitudine per avere l’ora locale.

Per tutto il XVIII ed il XIX secolo nuovi mezzi e tecnologie incrementarono la velocità, l’efficienza e la sicurezza dei trasporti marittimi: all’inizio dell’Ottocento alcune piccole imbarcazioni olandesi sperimentarono nuove attrezzature veliche, basate su pennoni girevoli (boma) che consentivano di risalire, seppur per angoli molto piccoli, il vento[2].

I brigantini e le golette del secolo XIX iniziarono ad abbinare agli alberi con pennoni tradizionali, che con vento di poppa avevano maggior efficienza, alberi con boma girevole. Mentre i grandi velieri che percorrevano le rotte dell’Australia e delle Americhe (i clipper) mantenevano l’attrezzatura velica tradizionale per sfruttare i costanti venti oceanici, brigantini e golette montavano un’attrezzatura mista, per muoversi più agilmente lungo le rotte secondarie o per il servizio postale e di collegamento.

 

Finalmente, dopo quasi 1500 anni, ritroviamo un sistema organizzato di trasporto marittimo che ricorda quello Romano: i collegamenti postali sono ormai regolari con quasi tutti gli angoli del pianeta, il flusso delle merci è costante, da e per l’Europa.

Fu l’ultima stagione dei grandi velieri (anche se il loro definitivo sterminio avvenne durante la prima guerra mondiale a causa dei sommergibili e dei corsari tedeschi), e l’importanza dei trasporti di fibre tessili e minerali grezzi da ogni regione del pianeta consentì all’Europa ed alla nascente democrazia americana il salto della rivoluzione industriale.

Quel mondo, seppur insanguinato dall’avventura napoleonica e dalle brevi guerre europee ed americane di metà Ottocento, era un mondo stabile, nel quale il sistema di trasporto internazionale costituiva un anello importantissimo: per la prima volta era possibile acquistare un biglietto per un viaggio transoceanico con la ragionevole certezza di giungere a destinazione sani e salvi.

Gli enormi spostamenti di popolazione verso i nuovi mondi avvennero proprio in quel periodo, con costanti flussi migratori verso le Americhe e l’Australia: purtroppo non sempre questi miglioramenti furono avvertiti da tutto il genere umano, basti pensare alla triste stagione delle dominazioni coloniali in Africa, che ancora oggi fa sentire tutto il suo peso nella situazione politica ed economica del continente nero.

La potenza imperiale dominante era sicuramente la Gran Bretagna, ma il sistema economico era ormai internazionale, ed il capitalismo era quindi in grado di garantire sviluppo economico e tecnologico in tutto il pianeta, ignorando guerre ed altri, traumatici mutamenti, giacché la legge del profitto e dell’impresa regnava ormai sovrana.

Qui incontriamo forse una differenza sostanziale rispetto all’Impero Romano: la solidità del sistema economico era legata a filo doppio con il potere di Roma, mentre nel XIX secolo sono ormai le grandi banche d’affari internazionali a garantire la sopravvivenza degli apparati economici.

 

Proprio in quegli anni giunse dalla tecnologia il più straordinario regalo che il mondo del trasporto potesse immaginare di ricevere: la macchina a vapore.

Con la macchina a vapore, infatti, poteva essere mandata in soffitta la dipendenza delle rotte commerciali dal regime dei venti oceanici. Solo per citare un esempio, la rotta da Londra a Sidney doveva, forzatamente, correre lungo le coste dell’America del Sud per poi deviare verso oriente oltre la Patagonia, ed approfittare dei venti occidentali che spirano costanti a quelle latitudini (i cosiddetti roaring forty, “quaranta ruggenti”), con un considerevole aumento delle distanze rispetto ad una rotta che corre lungo le coste dell’Africa, impraticabile a causa dei venti contrari e per le calme equatoriali.

La macchina a vapore mandò in pensione anche il sistema di diligenze e stazioni di posta che, a ben vedere, era ancora figlio del complesso imperiale romano: nel volgere di pochi decenni la ferrovia soppiantò definitivamente la trazione animale.

La necessità di collegare sempre più regioni con le strade ferrate, e le convergenti esigenze dello sviluppo industriale, accelerarono la definitiva affermazione degli stati nazionali: é sintomatico che, mentre il nascente stato italiano si confrontava militarmente con l’Austria-Ungheria, compagnie austriache avevano ricevuto l’appalto per il collegamento fra Roma ed il Nord Italia, ed agissero con una “diplomazia parallela” per ottenere permessi di transito dai piccoli ducati emiliani e dallo Stato Pontificio, mentre il loro governo tentava in tutti i modi di fermare l’aggregazione e l’indipendentismo italiano.

L’importanza della ferrovia è testimoniata dallo sviluppo degli Stati Uniti d’America: non si può nascondere che la vera nascita di quello stato, come entità in grado di gestire realmente quegli enormi territori, avvenne con la nascita della Railway Pacific, la ferrovia che, con enorme impegno e la parallela distruzione della cultura dei nativi, portò a collegamenti stabili fra l’Atlantico ed il Pacifico.

 

La successiva stagione, l’affermarsi del motore a scoppio e dell’aviazione commerciale è ormai storia del ‘900: mutarono i mezzi, ma la filosofia di base rimase la stessa.

Il mezzo aereo ebbe un’evoluzione velocissima: dal primo volo dei fratelli Wright alla comparsa dei primi collegamenti regolari trascorsero solo cinquant’anni, durante i quali avvennero le imprese aviatorie di Italo Balbo, le odissee dei dirigibili tedeschi ed i primi tentativi di collegamento fra la Francia e l’America del Sud, con scalo a Dakar, ai quali partecipò come pilota Antoine de Saint Exupéry, l’autore de Il piccolo principe.

I due terribili conflitti mondiali, anziché arrestare l’evoluzione dei mezzi e della logistica dei trasporti, la incrementarono: basta riflettere agli enormi problemi che dovettero risolvere gli Alleati nella progettazione dello sbarco in Normandia, missione nella quale i tedeschi fallirono nella precedente programmazione dell’operazione Seelöeve, lo sbarco in Inghilterra. Anche se la Luftwaffe avesse sconfitto la Royal Air Force nella Battaglia d’Inghilterra, difficilmente le truppe del maresciallo Von Brautish sarebbero riuscite a metter piede sulle coste del Kent: il piano d’invasione era confuso e prevedeva addirittura lo sbarco di due divisioni con carriaggi trainati dai cavalli.

Gli Alleati dimostrarono, invece, saggezza e lungimiranza nella progettazione e nell’esecuzione dei grandi sbarchi che, a ben vedere, altro non furono che sofisticatissime, complesse e rischiose operazioni di trasporto. Affondando nei pressi delle spiagge dello sbarco vecchie navi, per ottenere un rudimentale frangiflutti, pochi giorni dopo quel fatidico 6 giugno del 1944 gli Alleati abbozzarono i porti artificiali di Omaha Beach ed Arromanches, nei quali fecero affluire i primi rifornimenti nell’attesa di conquistare i porti della costa francese.

Lo scontro titanico coinvolse profondamente gli apparati produttivi: gli USA vararono, nel giro di un anno esatto, cento portaerei di scorta. Anche alla logistica fu dedicata la massima attenzione, con il varo di centinaia di Liberty, navi mercantili realizzate in parte in ferro-cemento per ridurre al minimo i tempi di costruzione.

Tutto ciò lasciò alla cantieristica, alle industrie aeronautiche e, in generale, alla logistica dei trasporti un enorme patrimonio d’esperienze, ancora una volta ottenute al prezzo del sangue, al quale attinsero a piene mani le compagnie di trasporto nella successiva ricostruzione post-bellica.

Un successivo salto qualitativo fu il passaggio dal trasporto di merci sfuse al sistema dei container (il corrispondente tecnologico dell’anfora e del barile), ma siamo ormai ai giorni nostri e vedremo, in seguito, come questo nuovo metodo ben si adatta alla nuova gestione informatica del trasporto a livello planetario.

 

Questa breve escursione storica era necessaria per inquadrare correttamente il sistema di trasporto come parte integrante e “valore aggiunto” di una società. Come abbiamo visto, nell’antichità solo l’Impero Romano possedeva un sistema organizzato di trasporto, e per trovare un erede a quel complesso sistema, viario e marittimo, si deve giungere alla rivoluzione industriale.

Le innovazioni tecnologiche degli ultimi due secoli hanno rivoluzionato il mondo del trasporto ma, parallelamente, le esigenze sono aumentate.

Fino alla metà del secolo scorso gran parte dei beni era prodotta e consumata in loco; anche se non si può considerare quel sistema strettamente autarchico, soprattutto i generi alimentari non subivano grandi spostamenti: le velocità di trasferimento erano basse e non esistevano ancora affidabili metodi di refrigerazione per il trasporto.

Le aree agricole intorno alle città erano adibite alla coltivazione d’ortaggi, al piccolo allevamento, ed i prodotti giungevano rapidamente sui banchi dei mercati cittadini: nonostante le terribili ferite belliche, durante l’ultimo conflitto mondiale le popolazioni non giunsero quasi mai alla morte per fame.

Oggi, si sta affermando un nuovo metodo di produzione e consumo – la cosiddetta globalizzazione – ossia un sistema dove un bene viene prodotto laddove esistono le migliori condizioni (costo del lavoro, formazione del personale, disponibilità di materie prime e d’energia, ecc.) per essere poi distribuito su base planetaria.

Ciò comporta una sempre maggior complessità del sistema dei trasporti, che ha l’enorme responsabilità di far giungere una vasta panoplia di beni, prodotti quasi ovunque, in tutto il pianeta.

Gli itinerari terrestri e le rotte marittime sono le stesse dei tempi di Cook; ad esse si è aggiunto il trasporto aereo che, per quanto riguarda le merci, corrisponde però solo ad una minima frazione del totale.

Aumentando in modo esponenziale le esigenze, tutta la rete dei trasporti è esposta ad un superlavoro: lo possiamo avvertire facilmente percorrendo un tratto autostradale.

Il mezzo gommato presenta alcuni, innegabili vantaggi: riesce a trasportare direttamente il proprio carico dal mittente al destinatario, senza intermediazioni e senza l’intervento di terzi.

Parallelamente, la portata di un autosnodato è minima se paragonata a quella, ben maggiore, di un convoglio ferroviario e, ancor più, del mezzo navale.

Questo è però solo un aspetto del problema: incognite energetiche, ambientali, sociali, sindacali si accavallano e s’intersecano in un groviglio del quale le attuali classi politiche non sembrano riuscire a trovare il bandolo.

All’inizio del terzo millennio, siamo nuovamente sotto esame: la complessità e l’efficienza degli attuali trasporti è messa in forse dall’esaurirsi delle fonti fossili che, per due secoli, hanno consentito d’attingere ad una riserva d’energia che pareva illimitata.

Fra mezzo secolo non avremo più a disposizione petrolio e gas, ed anche le riserve di carbone non sono illimitate: torneremo quindi, se non sapremo trovare soluzioni valide, nelle stesse condizioni che precedettero la prima rivoluzione industriale.

Il problema, purtroppo, non viene sufficientemente posto all’attenzione del grande pubblico: eppure, cinquant’anni non sono molti per rimodellare su basi completamente nuove l’intero sistema mondiale di trasporto.

Ad oggi, non sappiamo nemmeno dove trarre l’enorme quantità d’energia necessaria per muovere – fra appena mezzo secolo – automobili, camion, aerei, treni e navi: anche l’attuale gestione, dovendo utilizzare mezzi completamente trasformati, dovrà forzatamente essere rinnovata con un occhio attento ai consumi energetici.

Senza pretendere di stendere l’ennesimo “libro bianco” dei trasporti, giacché ne esistono già molti che ammuffiscono negli archivi, proveremo a tratteggiare il problema ed a fornire qualche timida proposta, ponendo sempre attenzione a non sconfinare nella fantascienza né ad usare termini e linguaggi non comprensibili per tutti – qualunque sia il nostro livello d’istruzione – giacché dovremo tutti, nei prossimi decenni, fare i conti con la nuova realtà.


[1] Il problema della longitudine fu risolto mediante il cronometro. Mantenendo un cronometro fisso sull’ora del meridiano di Greenwich (0°), si calcolava con il sestante la massima altezza del sole sull’orizzonte (il mezzodì locale). Confrontando i due valori si otteneva lo scarto, sapendo che un’ora di differenza corrispondeva – all’Equatore – ad un arco di cerchio di 15°.

[2] La navigazione con pennoni ortogonali all’asse longitudinale della nave può utilizzare solo venti che provengono dai quadranti poppieri: paradossalmente, un vascello con soli pennoni fissi che si esponesse al vento di prua ne riceverebbe una spinta all’indietro. Per utilizzare venti laterali (fin quasi a 35° dalla prua) è necessario ruotare il pennone da un estremo per ricevere la spinta del cosiddetto vento apparente, ottenendo la “scomposizione” vettoriale del flusso, per utilizzare solo il vettore funzionale al moto. Per chi volesse approfondire il fenomeno – che a prima vista sembra una contraddizione – rimandiamo ai molti manuali in commercio sulla navigazione a vela.

http://www.ariannaeditrice.it/vetrina.php?id_macroed=1405