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“Abbiamo imparato a portare le giarrettiere, a scrivere intelligenti articoli progressisti, a fare il caffé e la cioccolata Milka. Ma quando si tratta di affrontare seriamente il problema della convivenza di poche tribù in una fertile penisola dell’Europa, non sappiamo escogitare altro metodo che il reciproco sterminio su scala di massa.”
Lev Trotsky, corrispondente per la Kievskaja Mysl nel Kosovo, durante le guerre balcaniche del 1912-13.
E così siamo giunti all’epilogo: il Kosovo è diventato Kosova. Questi sono i “grandi temi” ai quali si applica la politica internazionale, gli obiettivi, i principi. Da oggi in poi, signori miei, ciascuno di noi potrà proclamare l’indipendenza di ciò che gli pare: non sarà più necessario concordare nulla, né avere l’assenso dell’unica organizzazione che (eventualmente) potrebbe sancirla, ovvero l’ONU. Ah, dimenticavo: procuratevi prima l’assenso del Segretario di Stato USA e della NATO. Quello europeo non serve, basterà – eventualmente – un’autocertificazione convalidata dal vostro segretario comunale (in procinto di diventare, probabilmente, Ministro dell’Interno).
All’occorrenza, potrete scaricare dal Web un fac-simile di quelli “milleusi”, nel quale dovrete sostituire le parole “residente nel comune di Pippolandia, Repubblica Italiana”, con “Repubblica di Pippolandia”. Siete a posto: fatto. Perché, sotto l’aspetto del diritto internazionale, questa è stata l’indipendenza del Kosovo.
Fra i tanti commenti che sono apparsi, nessuno ha citato il fatto che l’UE non è stata in grado di formulare un giudizio e d’avere una posizione univoca: avanti uniti, in ordine sparso. L’Italia – per non venir meno alla tradizionale “decantazione” prima di prendere decisioni importanti (si pensi alle due guerre mondiali…) – attende, per bocca del suo Ministro degli Esteri, che i partner europei “si pronuncino”.
“L'Italia è quindi pronta a riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma intende farlo assieme a Francia, Germania e Gran Bretagna e "senza strappi" con gli altri Paesi dell'UE.” Afferma una non dichiarata “fonte diplomatica” all’ANSA il 17 Febbraio, “perché Cipro, Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Slovacchia sono fortemente critici sul nuovo status di Pristina.”
Notiamo che, a parte la Spagna – che in politica estera non è proprio il due di coppe – degli stati balcanici aderenti all’UE l’unica a pronunciarsi favorevolmente è stata la Slovenia. Che si trova a mille chilometri da Pristina.
Perché l’ostracismo delle repubbliche balcaniche?
L’ANSA brilla spesso per essere così “neutra” da diventare la semplice cassa di risonanza del Governo al potere, ma stavolta non s’è accorta di contraddirsi platealmente.
Massimo D’Alema definisce “ineluttabile” l’indipendenza del Kosovo – dimenticando che fu proprio lui uno degli artefici di questa “ineluttabilità”, quando inviò i cacciabombardieri italiani AMX a bombardare la Serbia – e incassa la solidarietà di Fini, il quale dichiara:
“In una politica che divide, su questa questione quello che ha fatto D'Alema è sostanzialmente anche da me condiviso. Proprio perché D'Alema si è mosso sulla scia di una precedente posizione assunta dal governo di centrodestra."
E, questo, la dice lunga sulle grandi “novità” dell’orizzonte politico italiano.
Purtroppo per lor signori, c’è una voce fuori del coro ed è quella del generale Fabio Mini, che comandò la forza NATO in Kosovo nel 2002 e nel 2003, il quale esprime ben altro giudizio.
Attenzione: qui non parla uno dei tanti sproloquiatori a vanvera del teatrino politico italiano, qui parla una persona che ben conosce la situazione.
Al Corriere della Sera, il generale Mini dichiara (e riporta l’ANSA):
“Il Kosovo indipendente serve solo ai clan che lo potranno utilizzare per le loro spregiudicate operazioni finanziarie, un "porto franco" che consentirà di farne la base di nuove banche per il denaro dell'Est perché "Montecarlo, Cipro, Madeira non sono più affidabili.”
In sostanza, mentre Montecarlo, Cipro, Madeira ed altre realtà sono espressamente dedicate al traffico internazionale occulto d’alto bordo, serve un luogo dove far crescere e prosperare la “piccola e media impresa” criminale, un posto dove anche chi può permettersi poco – magari solo la vendita di qualche carico d’armi in Africa, o un po’ di eroina dal nuovo Afghanistan “purificato” da USA e UE dai Talebani (che avevano fortemente represso la coltivazione dell’oppio) – potrà trovare banche accoglienti, finanziamenti discreti, amene località a basso costo per “fare impresa”.
Per preparare un simile “terreno di coltura”, però, è necessario tanto duro lavoro e gente volenterosa: si sa, fare l’imprenditore è un mestiere rischioso.
Per prima cosa era necessario togliere di mezzo i serbi – che hanno le loro responsabilità in quei luoghi, come tutti ne hanno nei Balcani – ed a questo pensarono le 19 aviazioni riunite del IV Reich, nel 1999.
Poi, c’erano dei fastidiosi strascichi da regolare…piccoli particolari, inezie…
Una era la presenza dei ROM, che vivevano – stanziali – da secoli in quelle terre. Quelli che lamentano la presenza dei ROM in Europa – penosa e criminale l’affermazione di Berlusconi, che ha promesso “tolleranza zero” per i ROM, soprattutto se riflettiamo che l’uomo si candida a governare uno dei più importanti stati del pianeta – dovrebbero conoscere un po’ meglio la storia di quel popolo, prima d’abbandonarsi alla voce delle viscere.
Per prima cosa, i ROM dovrebbero godere della stessa attenzione ampiamente riconosciuta agli ebrei per la Shoà: purtroppo, i ROM non hanno banche che finanziano Yad Yashem per fare ricerche sull’Olocausto. Così, a Tel Aviv, si è pensato che era meglio fare di tutta l’erba un fascio: chi è morto nella Shoà? Gli ebrei.
Non sappiamo quanti ROM finirono “su per il camino”, ma tanti sopravvissuti (di molte etnie e nazioni) raccontano quella che fu la loro triste odissea: razziati dagli italo-tedeschi (sì, anche dagli italiani, più i fascisti croati) finirono nei vagoni piombati per la Germania, magari dopo una “sosta” alla Risiera di Trieste.
E’ difficile fornire cifre attendibili al riguardo, poiché anche l’ultimo censimento statale jugoslavo ne contava approssimativamente 2 milioni, definendoli “jugoslavi”, perché non si sapeva quale nazionalità (serbi, croati, ecc.) attribuire loro.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, nessuno si prese la briga di risarcire in nessun modo un popolo che aveva subito la brutalità nazista al pari degli ebrei. I soliti due pesi e due misure.
Finirono per essere un “problema interno” jugoslavo, e moltissimi ROM divennero stanziali proprio in Kosovo, principalmente a Pristina, Kosovo Polje, Tavnik, Podujevo, Djakova…
Per raccontare la storia dei ROM in quella terribile estate del 1999 – quando, terminate le ostilità, in Italia si discuteva delle elezioni europee, oppure s’andava semplicemente al mare – è importantissimo un documento pubblicato sul Web da Miguel Martinez e da Theo Fründt, dal titolo “Storia di Reska”, che troverete all’indirizzo http:www.kelebekler.com .
Miguel Martinez è fine giornalista, uno dei tanti che scrivono benissimo (ve ne accorgerete da soli, se leggerete quelle pagine) e che non trovano – ovviamente – “grande accoglienza” nell’editoria di regime.
Ancora più sconvolgente la vicenda di Theo Fründt, che è un esperto d’aiuti umanitari ed era stato inviato dal suo governo per soccorrere i profughi albanesi.
Quando Fründt s’accorse che i più perseguitati erano invece i ROM, ne informò Berlino, la quale rispose che “il loro dramma non era politicamente interessante”.
Solo per ricordare brevemente il dramma dei ROM, bisogna sapere che – all’arrivo dei guerriglieri dell’UCK a Kosovska Mitrovica, a Graçanica, etc. – i comandanti albanesi avevano già le cartine delle città, dove erano indicate con precisione le varie etnie, casa per casa.
Semplicemente, diedero poche ore di tempo alla popolazione ROM per lasciare le case, altrimenti li avrebbero bruciati insieme ad esse. Sorte che toccò, a Mitrovica, ad Aziz Azemi – vecchio e zoppo imam della tekké (santuario) locale – che bruciò vivo nell’incendio delle 1.600 case non albanesi della città. Questa fu la pulizia etnica che avvenne in quella malsana estate, mentre D’Alema guidava il governo italiano e si scoprivano i mille rivoli di corruzione e di malaffare, compresi i traffici con la malavita albanese, che avevano intriso di veleno la “Missione Arcobaleno”.
Questa premessa era necessaria per comprendere le affermazioni del gen. Mini che, altrimenti, potrebbero essere travisate come uno sfogo personale per chissà quali motivi. Che sono, invece, ben fondate storicamente.
Per ottenere quella base per traffici d’ogni tipo, la vecchia dirigenza albanese di Ibrahim Rugova era troppo inaffidabile: era gente che desiderava sì l’indipendenza del Kosovo, ma in un quadro di condivisione con i serbi.
Ecco allora che sale al cielo la “stella” di Hashim Thaci, il comandante militare che diventa referente politico per gli USA e per alcuni paesi dell’UE (Italia compresa).
A dire il vero, si trattò di un’ascesa prevedibile e scontata, giacché lo stesso Thaci era stato il referente presso i clan albanesi di William Burns – inviato di Clinton in Albania per rassicurare i clan skipetari, per assicurare loro l’invio di armi e denaro, cosa che avvenne anche grazie all’invio diretto dall’Italia (in un carico della Caritas che, probabilmente, era all’oscuro di tutto, furono scoperti cannoni anticarro smontati) – e tanto lavoro “diplomatico” è stato oggi premiato.
Ascoltiamo cosa racconta il gen. Mini sulla nuova “dirigenza” albanese del “Kosova”:
“E’ il mandante di almeno 28 assassinati del partito di Rugova. Uno che, come molti capi dell'UCK, non ha mai spiegato la fine di un migliaio di rom, serbi e albanesi accusati di collaborazionismo, desaparecidos negli anni del primo dopoguerra".
Mini non cita apertamente Thaci (almeno, così parrebbe all’ANSA), ma un “presidente” è responsabile comunque dell’operato dei suoi Gauleiter.
La contrarietà di Mini è a tutto campo:
“Questi processi non si risolvono in pochi anni, e non si affidano a chi ha partecipato allo sfascio. Ci si rende conto che all'Aja non testimonierà più nessuno contro gente che comanda uno Stato?”
Certo, questa è la precisa volontà italo-britannica-franco-tedesco-statunitense, ovvero i soliti due pesi e due misure: Karadzic e Mladic devono essere processati all’Aja, Thaci, diventa invece presidente.
Il gen. Mini mostra poi ampie doti di giurista e diplomatico:
“Questa proclamazione fa saltare il diritto internazionale fondato sulla sovranità degli Stati. Uno scempio voluto dagli USA, che in questo diritto non credono e l'hanno dimostrato in Iraq. Sotto quest'aspetto, il Kosovo è l'altra faccia dell'Iraq.”
Riflettiamo che queste dichiarazioni non giungono da un Hugo Chavez oppure dall’Iran: sono l’espressione di un generale del nostro Esercito – finalmente qualcuno che ne ravviva l’onore con il coraggio, non solo con la triste conta dei morti – di una alto ufficiale italiano che ha comandato la forza NATO per due anni in Kosovo!
Pronto? Berlusconi, Fini, Veltroni, D’Alema, Casini, Diliberto? Come? Non vedo non sento e non parlo?
Ecco la contrarietà degli stati balcanici: signori, perché venite ad aprire il supermercato del crimine internazionale proprio sulla nostra porta di casa?
Fa parte del gioco, adesso, affermare che Serbia e Russia s’opporranno drasticamente. Sarà molto difficile farlo, perché non esiste nessun documento sul quale votare all’ONU! L’indipendenza del Kosovo sarà sancita da una semplice presa d’atto, proprio come un’autocertificazione.
Suggerirei ai sardi, corsi, nord-irlandesi, baschi, altoatesini, bretoni…ed a tutti coloro che voglio rendersi indipendenti, di firmare finalmente la benedetta autocertificazione – come ha fatto Pristina – e risolvere così i loro problemi.
Fuori della satira, i veri rischi che si corrono nei Balcani non sono oggi in Kosovo, bensì in Bosnia. Chi conosce la Jugoslavia, so già che assentirà, pensoso.
Di tutte le repubbliche ex-jugoslave, l’unica che non ha mai superato lo choc della guerra è la Bosnia. Rimangono sì altri problemi, strascichi…basti pensare che la Croazia, tuttora, rivendica l’aeroporto di Portroz (Portorose), che è in territorio sloveno, al confine.
Niente, però, che s’avvicini alla tragica inconsistenza politica bosniaca: il Ministero degli Esteri italiano – in una scala da 1 a 7 – assegna alla Bosnia un “7” per quanto riguarda l’affidabilità degli investimenti stranieri. Una nazione nella quale la moneta è rimasta il marco, “Marka convertible”, come al tempo della guerra.
E’ “convertible” perché la puoi convertire sul posto con quel che cazzo ti pare: corone croate, dinari di Belgrado, euro, dollari, una stecca di sigarette, una tanica di benzina.
La Bosnia è la vera polveriera della Jugoslavia, perché dalla separazione dall’Impero Ottomano – nel 1878, poi divenuta formale nel 1908 – non ha mai trovato equilibrio.
Grande “ventre” della Jugoslavia (basta osservare una cartina per rendersene conto) sopravvive politicamente con presidenze “a rotazione”: un ortodosso, un cristiano, un musulmano.
Viaggiando per la Bosnia musulmana, ci si rende conto che il tempo si è fermato con la fine della guerra, forse ancora prima, con la morte di Tito.
Nessuno sa come risolvere l’enigma, perché sullo stesso territorio convivono due repubbliche serbe (al nord ed al sud), mentre su una parte dell’Erzegovina ci sono tuttora rivendicazioni croate.
Niente di più facile, da parte di chi vorrà approfittare dell’indipendenza “on demand” del Kosovo, per accendere nuove micce: magari sacrosante, oppure truffaldine, in una terra dove il tanto vituperato l’Illuminismo non ha mai attecchito, dove ci si riconosce principalmente su base religiosa ed etnica.
Qualcosa Tito aveva cercato di fare per superare le mille divisioni interne: fu forse troppo poco? Sarebbe lungo affrontare un simile argomento, e ci vorrebbero ben altri spazi (e la pazienza dei lettori).
Tentai, però, nel 2000, di raccontare davvero cos’era successo fra le montagne del Kosovo, d’andare oltre le mille bugie raccontate mostrando sempre e soltanto il posto di frontiera di Morini. Ne nacque un libro, che intitolai “Kosovo e dintorni: la verità addomesticata”, che presentai a numerose case editrici. In quelle pagine, c’erano già i prodromi per raccontare l’oggi, questo oggi da operetta tragicomica.
Nessuno volle pubblicarlo: un altro punto d’onore per l’editoria italiana. Avanti coi carri, ed ogni carro ci porterà sempre la solita carrata di bugie.